Eutanasia,
un diritto del paziente contro un'antica atica medica
A
colloquio con l'Avv. Nino Marazzita
di Vito Scalisi
La
parola morte oggi non possiede più, nella nostra cultura,
alcun riferimento naturale. La storia dell’uomo è pervasa
di fallimenti nel tentativo di scoprire il mistero nascosto dietro
questo evento fisico, ma anche dagli estenuanti sforzi di allontanare
il senso prima di frustrazione, poi di paura che la morte è
capace di innescare nel nostro animo. Con un abile escape psichico
abbiamo reso la morte un concetto sterile. La morte degli altri
non ci appartiene e quella nostra sembra non debba arrivare mai.
I media hanno svolto un ruolo fondamentale nella realizzazione di
questa finzione. Una struttura sociale, essenzialmente occidentale,
che mostra troppo spesso i suoi limiti. Paradossi legislativi e
religiosi, imbarazzi deontologici svelano l’inefficacia di
questa costruzione. All’interno di questa cornice si inserisce
il caso Schiavo. La spettacolare enfatizzazione di un evento a livello
mediatico contro la drammaticità, ancora una volta celata
dietro i riflettori di prima fila, dell’essere umano faccia
a faccia con la morte e la sofferenza. In ambito medico la questione
non è poi demandabile. Infatti oggi l’eutanasia implica
l’intervento diretto del medico nell’aiutare il paziente
morente. Proprio questo intervento rende la situazione delicata,
lo stesso giuramento di Ippocrate insegna al medico a salvare la
vita alle persone e non a portar loro la morte. Si legge: «Non
somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco
mortale, né suggerirò un tale consiglio…».
Fu il medico e filosofo inglese Francesco Bacone, all’inizio
del Seicento il primo a pensarla diversamente: «I medici dovrebbero
imparare l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo
mondo con più dolcezza e serenità…». Da
una parte il problema è dunque quello di riconoscere fino
in fondo l’autonomia del paziente, dall’altra è
quello di formulare una nuova etica per i medici, in cui il dovere
assoluto alla cura, si concili con il rispetto della volontà
della persona morente. Intanto la questione rimane ancora nelle
mani della eterogenea giurisprudenza di ogni stato, a cui è
affidato il compito di sbrogliare questa matassa esistenziale. «La
scelta deve dipendere solo dal paziente» è il parere
del noto avvocato Nino Marazzita, a cui abbiamo rivolto qualche
domanda in merito.
Grande
scalpore ha suscitato negli Usa il caso Schiavo, un caso di eutanasia
che ha scosso persino i vertici governativi americani. In uno Stato
in cui la pena di morte è applicabile anche ai minori, perché
tanto clamore per le sorti di una donna ridotta da anni allo stato
vegetale?
Credo che il clamore suscitato dal caso di Terri Schiavo, a livello
planetario, sia dovuto al modo in cui è stata provocata la
morte della povera ragazza; l’atrocità del metodo utilizzato
dai medici per provocare il decesso, ovvero l’interruzione
della somministrazione di alimenti e bevande, è tanto più
evidente se si considera che l’accezione letterale del termine
“eutanasia”, in greco antico, corrisponde a “buona
morte”. Il diritto di essere malato, di non essere curato
o di lasciarsi morire dovrebbe spettare inoltre solo al paziente
e non anche ai genitori, ai familiari o alla “burocrazia”
di qualche Autorità Giudiziaria; per tale motivo condivido
le legislazioni di altri Stati che prevedono le cosiddette “direttive
anticipate”, vale a dire dei veri e propri “testamenti
biologici” nei quali ciascuno decide della propria vita nella
malaugurata ipotesi in cui si venisse a trovare nell’impossibilità
di manifestare il proprio parere [si veda la legislazione di alcuni
Stati dell’Australia, del Canada, della Danimarca, degli Stati
Uniti e dei Paesi Bassi].
In Italia come si comporta la giurisprudenza nei confronti
di chi richiede l’eutanasia per un suo caro? Secondo lei andrebbe
modificata o si tratta della migliore formulazione possibile?
La legislazione italiana e anche la giurisprudenza, assimila la
c.d. “eutanasia attiva”, ovvero la causazione della
morte da parte del medico, all’omicidio volontario, punito
con una minor pena nel caso in cui si riesca a dimostrare il consenso
del malato a morire; tale ipotesi, definita dal codice penale “omicidio
del consenziente”, è punita con la reclusione da sei
a quindici anni anziché con la detenzione, prevista per l’omicidio
volontario, non inferiore agli anni ventuno.
Più complicato è il caso di “eutanasia passiva”,
vale a dire l’ipotesi in cui il medico si astenga dal praticare
cure volte a tenerlo ancora in vita; difatti in tali ipotesi bisogna
coniugare il diritto di non essere sottoposto ad inutili “accanimenti
terapeutici” con il diritto–dovere alla vita.
A fronte del difficile contemperamento di questi due diritti–doveri,
accade spesso che, malgrado soventi richieste dei familiari di lasciar
morire i propri cari affetti da patologie irreversibili o da stati
vegetativi, l’applicazione concreta delle norme, compiuta
dalla magistratura, tenda a tutelare il diritto alla vita; si pensi
ad esempio al caso di Eluana, una ragazza di Lecco che malgrado
versi in uno stato comatoso permanente dal 1992, a causa di un incidente
stradale, non viene lasciata morire dai giudici del nostro paese.
«Buona
morte»
Eutanasia in greco antico significa, letteralmente, buona morte.
Oggi con questo termine si definisce correntemente l’intervento
medico volto ad abbreviare l’agonia di un malato terminale.
Si parla di "eutanasia passiva" quando il medico si astiene
dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato, di "eutanasia
attiva" quando il medico causa, direttamente, la morte del
malato, di "eutanasia attiva volontaria" quando il medico
agisce su richiesta esplicita del malato. Nella casistica si tende
a far rientrare anche il cosiddetto "suicidio assistito",
ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita
compiuto da un malato terminale in presenza e con mezzi forniti
da un medico.
Le
tappe della vicenda Schiavo
La vicenda inizia nel 1991 quando Terri Schiavo - 26 anni - viene
colpita da un collasso cardiaco che interrompe per alcuni minuti
l’afflusso di ossigeno al cervello. Questo le provoca danni
alla corteccia cerebrale. Da allora la donna vive in uno stato vegetativo
ed è ricoverata in una casa di degenza. Nel 1992 la famiglia
intenta e vince alcune cause contro i medici che sarebbero intervenuti
in maniera non adeguata. Negli anni tra il 1993 e il 2005 inizia
una lunga battaglia legale tra i genitori di Terri - Robert Mary
Schindler - e il marito della donna Michael Schiavo. I primi sempre
convinti della possibilità che la figlia recuperi, il secondo
determinato a far rispettare quella che secondo lui sarebbe la volontà
di Terri. Il 25 febbraio 2005. Il giudice Grear della contea di
Pinellas, in Florida, ordina che i meccanismi di nutrimento e idratazione
che mantengono in vita la donna siano rimossi alle ore 13 di venerdì
18 marzo. Morirà 13 giorni dopo.
|
Eluana Englaro
prima dell'incidente |
In Italia il caso Eluana
Eluana Englaro entrò in coma la notte del
18 gennaio 1992 a seguito di un incidente stradale. Da allora anche
per lei, come per Terri, una "non vita" che i genitori vorrebbero
finisse una volta per tutte. La ragazza aveva 19 anni e stava rientrando
a casa dopo aver passato la serata con amici. L'auto su cui viaggiava
finì contro un palo. Da quella notte non si è mai ripresa
e finora inutili sono state le richieste di papà Beppino di
"staccare la spina". Da allora si trova in uno stato vegetativo,
i suoi occhi si aprono e si chiudono seguendo il ritmo del giorno
e della notte, ma non vedono. Ogni mattina gli infermieri le lavano
il viso e il corpo con spugnature. Una volta al giorno la mettono
su una sedia con schienale ribaltabile. Poi di nuovo a letto. «Mantenendo
in stato vegetativo Eluana, le viene garantita la dignità umana?».
È questo il quesito contenuto nel ricorso presentato a metà
gennaio alla Suprema Corte, che ha respinto la richiesta, dall'avvocato
Vittorio Angiolini. «Qui non si tratta di eutanasia - spiega
Beppino -. Si chiede piuttosto di smetterla con un inutile accanimento
terapeutico, ma soprattutto di rispettare la volontà di mia
figlia espressa prima di quel maledetto giorno».
Un
po' di storia
Nella Grecia antica il suicidio riscuoteva un’alta
considerazione: si supponeva che ognuno fosse libero di disporre
come meglio credesse della propria vita. L’assistenza al suicidio
nel mondo classico non fu proibita fino all’avvento al potere
del cristianesimo. Agli inizi di questo secolo alcuni pionieri riproposero
il tema all’opinione pubblica: la durata della vita andava
allungandosi, ma non sempre a una maggior durata si accompagnava
la possibilità di godere, per più tempo, di una qualità
di vita dignitosa. Oggi le associazioni di tutto il mondo sono riunite
nella World Federation of Right to Die Societies [Federazione Mondiale
delle Società per il Diritto di Morire]. Il "consenso
informato" è oramai entrato a far parte del vocabolario
medico: con esso è stata riconosciuto il diritto del paziente
di dire la sua sulle cure che dovrà ricevere. Ora la battaglia
delle associazioni si è sostanzialmente spostata, oltre che
sulla richiesta della legalizzazione, sulla liceità e sul
valore legale della sottoscrizione, da parte di chiunque, di "direttive
anticipate"; qualora, in futuro, si venisse a trovare nell’impossibilità
di opinare sulle cure ricevute. A tal fine sono stati quindi elaborati
dei veri e propri "testamenti biologici". Obbiettivo ultimo
è riuscire a far sancire il diritto di ogni individuo di
disporre liberamente della propria esistenza.
1967
Luis Kutner conia l’espressione “Living will”
per designare il rifiuto di alcune forme di terapie
1973 nascono in Oldanda
società per l’eutanasia volontaria 1976 si tiene a
Tokyo il primo incontro internazionale delle società
per l’eutanasia volontaria
1980 nasce la World
Federation of Right-to-Die Societies, costituta ad Oxford [Inghilterra]
a partire da 27 gruppi appartenenti a 18 nazioni
1980 viene resa pubblica
la “Dichiarazione sull’eutanasia” della Sacra
Congregazione per la dottrina della fede [Chiesa Cattolica] che
esprime una netta condanna di tale pratica
1983 viene resa pubblica
la “Dichiarazione sulla fase finale della malattia”
dell’Associazione Medica Mondiale, che ancora ribadisce la
necessità di curare le persone sofferenti senza sopprimerle
1984 la Suprema corte
olandese approva la pratica dell’eutanasia, a determinate
condizioni
1991 il Congresso
degli Stati Uniti approva il Patient Self-Determination Act , che
impone agli ospedali il rispetto dei living wills; l’anno
successivo è l’Associazione Medica britannica a dichiarare
il proprio supporto ai living wills
1996 il governo del
Territorio dell’Australia del Nord approva la prima legge
che consente l’eutanasia attiva volontaria, che viene però
soppressa nel 1997 dal Parlamento Federale australiano
1998 in Cina il governo
autorizza la soppressione dei malati terminali
2001 viene approvata
la legge che legalizza l’eutanasia in Olanda
2002 entra in vigore
la legge che legalizza l’eutanasia in Belgio
2004 in Olanda l’eutanasia
è legale anche per i bambini sotto i 12 anni |