Le due culture
Scienza e Filosofia sottintendono proprio due tesi irriducibili alla sintesi, due culture non possibili di integrazione?
di Francesco Sisinni
Ha collaborato con Giovanni Spadolini nella formazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, di cui è stato Direttore Generale per circa vent'anni. Autore di numerose e apprezzate pubblicazioni di Filosofia, Storia dell'arte e Letteratura, è socio di varie Accademie nazionali ed internazionali. È Direttore del Master in Studi storico-artistici nella Università degli Studi LUMSA di Roma. È stato insignito dell'Onorificienza di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana
È
certamente innegabile che un dissidio profondo ha per troppo tempo
diviso gli scienziati dai filosofi, i tecnici dai teorici, gli epistemologi
dagli speculativi puri. E questo iato, certo innaturale, che tuttora,
se pure in misura men grave e più limitata, si deve lamentare
tra discipline umanistiche e discipline scientifiche, è un
fatto che trascende lo stesso mondo delle due culture, in quanto
investe tutta la realtà sociale, dal suo nascere alla civiltà,
al suo affannoso crescere nella storia delle genti.
In effetti la ragione storica di tanto dissidio è da identificarsi,
alla base, nell’infausto divorzio tra cultura e lavoro; o
meglio, nella difettosa interpretazione dei valori della cultura
e, di contro, nell’assoluta negazione dei valori del lavoro.
Come noto, Platone distingueva nell’uomo l’anima razionale,
vera luce e vera guida, dalle altre due, la irascibile e la concupiscibile,
l’ultima delle quali è -cavallo nero- cecità
pressoché assoluta e perciò forza solo strumentale;
lo stesso Platone costruì coerentemente a tale metafisica,
un ordinamento etico, politico e sociale ove i filosofi sono la
mente che ragiona e perciò governa, i guerrieri il coraggio
che lotta e perciò difende e gli operai la forza che produce,
nella misura in cui si lascia guidare.
«L’operaio è utile -si legge nel Gorgia- ma tu
disprezzerai lui e la sua arte e per offesa lo chiamerai banàusos».
Da allora in poi l’aristocrazia del pensiero ha sdegnato l’operatività
pratica così come l’aristocrazia sociale ha respinto
la manualità del lavoro ed il suo artefice diretto, il popolo.
Eppure la determinante rilevanza che la categoria concettuale di
lavoro è venuta progressivamente ad assumere nella dialettica
del pensiero e nel farsi della Storia, ha dimostrato e dimostra
come lo svolgimento positivo delle civiltà altro non sia
che la evoluzione, ossia il riconoscimento e il riscatto nel tempo,
dei valori insiti nell’attività operativa. Varrebbe
a questo punto la pena di fermarci a meditare un poco sul contenuto
e sulla storia del lavoro, nel contenuto e nella storia della società
e delle culture. Il lavoro, che nasce al mondo con l’uomo,
essendo di questi il destino e facendo di questi la storia, dalla
originaria funzione di conquista e dominio della natura è
passato all’iniqua concezione schiavistica delle prime civiltà.
Di lì ha esso iniziato la faticosa parabola che attraverso
le culture orientali e mediorientali , e poi degli elleni e dei
romani, giunge al cristianesimo che, riscattando lo schiavo, porta,
finalmente, il lavoro alla dignità di mezzo di elevazione
etica e sociale dell’umanità decaduta.
Si sa, tuttavia, che già sul finire del XVII secolo, mentre
la cultura ufficiale si snaturava in una vanità autoreferenziale
fine a se stessa, la vita, con le sue istanze di progresso, incominciava
ad urgere fuori di quelle stesse torri d’avorio, in cui i
dotti si ostinavano ad isolare i beni ereditati. Infatti, la scienza
del concreto, nata nelle aule del lavoro, iniziava a dare al mondo
i frutti portentosi delle silenziose quanto suggestive ricerche.
Iniziava l’era di Copernico e di Galilei.
Ma con l’avvento delle prime straordinarie affermazioni scientifiche
aveva anche inizio, però, quel grave dibattito o dissidio
tra lo scienziato e il filosofo, destinato a durare fino ai giorni
nostri. La filosofia, come scienza generale, può pretendere
di subordinare a sé le scienze particolari, o possono queste
ultime rivendicare una propria autonomia, respingendo qualsiasi
relazione tra di esse? Non vi è dubbio che la filosofia abbia
esercitato un’influenza determinante sulla fondazione e sullo
sviluppo delle scienze; e ciò sia per l’impostazione
rigorosa della ricerca, condotta in modo non più empirico
-come poteva avvenire nel campo della tecnica- ma propriamente liberale,
per usare una espressione di Proco, sia per la fondazione di sistemi
universalistici, sulla base delle ardite concezioni del cosmo. È
tuttavia vero come non si può comunque ammettere questa influenza
in senso assoluto -posto che non si può prescindere dalle
suggestioni e dai suggerimenti, sia pure metodologici, derivati
alla filosofia delle scienze- così non si può sostenere
la subordinazione delle scienze particolari alla filosofia, soprattutto
nella pretesa di estendere alle prime interpretazioni e, peggio
ancora, determinazioni aprioristiche, ovvero metafisiche. Tanto
è valso, comunque, a far parlare addirittura di due verità,
la verità scientifica e la verità filosofica, ed a
dare adito ad una polemica certamente infeconda tra gli uomini ed
i fautori delle cosiddette due culture, ansiosi, ciascun per suo
conto, di stabilire inutili primati, ora in nome di una tradizione
gloriosa, ora in funzione o in virtù di un miracoloso presente,
gravido di futuro, ed ora più spesso, invece, solo all’insegna
di miti dogmatici. Ben a ragione, anni addietro, il Timpanaro, doveva
rammaricarsi di tanto dissidio e di come la scienza non fosse, invece,
riuscita a fondersi con la cultura umanistica, diventandone un elemento
essenziale e perciò vitale, sì da impedire, finalmente,
che proprio tale cultura rimanesse prevalentemente e ostinatamente
filosofico-letteraria.
Ma
molto prima del Timpanaro, i più accorti pensatori, filosofi
e scienziati, primo tra tutti Leonardo, filosofo naturale, come
lo dissero i contemporanei, «omo sanza lettere» come
amò definirsi egli stesso, avevano avvertito l’esigenza
di una ricerca comune dell’unica verità dell’uomo.
Ai giorni nostri opere di insigni pensatori significano la tensione
costante verso tale unificazione e sintesi. In ambienti diversi
per superare il dualismo fra scienza e umanesimo, fra lavoro e cultura,
ora considerando la natura alla maniera idealistica, ora riducendo
la filosofia alla scienza, in senso positivistico, ora invece inventando
una nuova metafisica, la metafisica della tecnica, come pare l’intenda
Emanuele Severino, a noi pare che la soluzione a tanto problema
possa essere esperita solo tornando all’uomo, alla sua realtà,
al suo mondo. E innanzi a coloro che temono di far ricorso al Pensiero,
perché ancora troppo condizionati dalla vieta identificazione
di pensiero-ragione, o pensiero-idea pura, noi vorremmo ricondurre
tutto il processo umano proprio al Pensiero, inteso quale presenzialità
ed essenzialità dell’uomo, non solo nelle sue costruzioni
speculative, bensì, anche, nelle sue operazioni concrete.
È il pensiero che riconoscendosi nell’essere e nel
divenire, opera il superamento della tesi e dell’antitesi,
in quella più vasta categoria o forma, che, per essere sintesi,
non esclude, ma comprende gli opposti, i quali, anzi, in essa completantisi,
si vitalizzano. Sicché, se la esperienza e la gnoseologia
scientifica forniscono sempre nuovi contenuti alla filosofia speculativa,
è quest’ultima che, indagando, quei contenuti incessantemente
svolge e trasforma.
Il dato empirico, il fenomeno e la sua legge si fanno concetto,
acquisizione storica e attività teoretica, e questi, nuovamente,
si traducono in fatto, in operazione, in attività pratica.
Più semplicemente e fortemente ripeteremo allora con Vico:
«Verum et Factum convertuntur»!
Un’antica sentenza, attribuita ad Aristotele e che si sente
ancora fare il giro dei circoli d’ispirazione positivistica,
se non sensistica alla Condillac, ripete: «Nihil est in intellectu
quod prius non fuerit in sensu». Orbene, basterebbe tener
conto della sorte avuta, e sarebbe più esatto dire dell’evoluzione
seguita, da siffatta sentenza, per comprendere in che direzione
si è mossa la cultura vera, nell’interpretazione e
chiarificazione di se stessa. Infatti, se già nel criticismo,
quel sensu fu inteso, non come sensazione in senso stretto, biologico,
bensì, piuttosto, come sentimento ed esperienza, quando giunse
ad Hegel divenne momento del tutto e la formula, completatasi anche
nell’accezione, venne ad esprimere, finalmente e felicemente,
l’intero processo, così ponendo: «Nihil est in
intellectu quod non fuerit in sensu et nihil est in sensu quod non
fuerit in intellectu». Or noi potremmo esser già paghi
di tanto. Senonchè Hegel intendendo siffatta formulazione,
secondo le sue stesse parole, «nel senso del tutto universale,
che lo Spirito è la causa del mondo» e «nel senso
più limitato, che il sentimento giuridico, etico, religioso
è un sentimento e quindi un’esperienza di tale contenuto,
che ha la sua radice e la sua sede solamente nel pensiero»,
divinizzò tanto detto pensiero, che tolse ad esso quanto
lo fa in effetti storicamente umano. A noi sembra dunque che l’intuizione
hegeliana esprima chiaramente ed ontologicamente nell’intrinsecità,
la realtà vitale di tale processo, o osmosi, ma che essa,
al di là anche delle interpretazioni degli epigoni, dallo
Spaventa al Croce, debba intendersi in senso fenomenologico o esistenziale
o, più semplicemente, umano.
Nello spirito della migliore tradizione galileiana, la filosofia
della scienza ci ha dimostrato che un principio di fisica, di chimica,
di matematica non è una verità assoluta e che non
esiste un experimentum crucis una istanza cruciale -come avrebbe
detto Bacone- per provare la sussistenza in esso di un valore eterno.
Lo stesso progresso delle scienze dimostra -contrariamente a quanto
si credeva ed affermava nell’esaltante e romantico clima del
positivismo- che le leggi scientifiche non hanno validità
universale, in senso di immutabilità assoluta. Ed è
chiaro che se il progresso è dinamica, esso esclude dal suo
ambito e dal suo essere tutto ciò che è statico. D’altra
parte tanto si fa evidente proprio nella filosofia delle scienze
di Bernardo Russel, in cui quella verità o certezza infallibile
che il filosofo attribuisce alla logica matematica si trova, poi,
in contrasto col carattere convenzionale che lo stesso non può
non riconoscere ai fondamenti di essa. Il mondo cammina perché
l’uomo diviene. Ora è che questo divenire non smentisce
affatto, ma anzi conferma, se pur drammaticamente, l’essere;
e noi siamo e, divenendo, viviamo un paradosso perenne; e ciò
finchè Eraclito e Parmenide avranno entrambi ragione.
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