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Vito Scalisi
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Medico h-24
Intervista al Dott. Vittorio D’Amore medico
generico AslC
di Vito Scalisi
Medico
generico della Asl C con studio ubicato in zona Laurentina, il medico
da cui ci siamo recati questo mese, per meglio comprendere chi è
e cosa rappresenta questa figura professionale, è il dott. Vittorio
D’amore. Nato
a Roma il 4/7/1956, laureato all’Università La Sapienza,
specializzato in Geriatria
Quale ruolo occupa, secondo lei, il medico generico a livello sociale?
Noi rappresentiamo il primo gradino di una scala che unisce l’utenza
e l’ospedale. In questo modo per qualsiasi tipo di preoccupazione
importante o meno che sia, l’assistito si rivolge al suo medico
di famiglia. La figura del medico di famiglia si situa così a metà
strada tra quella del «confidente», -soprattutto per fasce
di età più avanzate - ed il «professionista»
- per i pazienti più giovani.
A livello istituzionale nel rapporto ad esempio con le
asl di appartenenza come si colloca il medico?
Non ho molti rapporti con la ASL.
Una esperienza che in questo periodo sto intrattenendo, invece, con più
frequenza è quella con l’Ospedale S.Eugenio e, in particolare,
con il reparto di ematologia. Frequentando quest’ospedale, mi sono
reso conto che alcuni colleghi ospedalieri tengono una certa distanza
dal medico generico.
Forse è per questo che la collaborazione che ritengo importante
tra queste due figure professionali, viene a mancare. Comunque ritengo
che il medico di famiglia debba collaborare costantemente con gli altri
colleghi e con le istituzioni a tutti i livelli, in modo da creare così
una continuità nel seguire il paziente in tutte le varie fasi della
malattia.
Qual’è il rapporto con i suoi pazienti?
È sostanzialmente un rapporto buono. Il loro comportamento è
sufficientemente corretto. Da parte mia cerco di comprendere al meglio
la psicologia di ognuno di loro. Questo mi serve per poter poi prevenire
quale tipo di evoluzione potrà avere una determinata patologia
diagnosticata.
Ascoltano sempre i suoi consigli?
In linea di massima si, alle volte però agiscono autonomamente.
In generale, spostandoci nel campo della teoria medica, qual’è
il suo rapporto con la «Malattia»?
Il rapporto si esplica soprattutto nei confronti della persona malata.
Il concetto di malattia può assumere aspetti differenti da soggetto
a soggetto.
Esiste dunque un’interazione indissolubile, nello studio della patologia,
tra il soggetto malato e la malattia stessa. Il mio approccio alla malattia
è innanzi tutto di personalizzazione.
Quale definizione del termine «Curare»?
Questo concetto nella sua accezione più positiva potrebbe significare
«guarire dalla malattia». Però non é sempre
vero. Una guarigione completa non è mai possibile, è invece
possibile convivere con la malattia.
Una definizione più realistica è riscontrabile in quello
che potremmo definire «processo di comprensione della malattia da
parte del malato». Più elevato sarà il grado di accettazione
della malattia raggiunto, maggiore sarà l’approssimazione
al traguardo della «cura». Curare diviene, in conclusione,
l’atto di accettazione da parte dell’assistito della malattia.
È soddisfatto della sua professione?
Sì, sono soddisfatto ancora oggi della mia professione. Sono medico
di base da sette anni, anche se mi sono iscritto all’albo dei medici
generici già nell’83.
Potrebbe raccontarci qualche aneddoto della sua carriera professionale?
Me ne vengono alla memoria due. Il primo risale ad una decina di anni
fa, quando ero volontario nel padiglione geriatrico del Santa Maria della
Pietà. Un giorno rivolgevo una serie di domande preliminari ad
una signora per valutare quali fossero i fattori di rischio della osteoporosi
in questione.
A fine colloquio, mentre salutavo notai l’orologio che portava al
polso e rivolsi dei complimenti per l’accessorio. Inaspettatamente
lei lo tolse e me lo regalò. Questo episodio mi ha lasciato senza
parole.
Si tratta chiaramente di un episodio positivo, purtroppo nel passato esistono
anche esperienze meno piacevoli ma comunque importanti.
Ne ricordo una che risale ai tempi in cui ero tirocinante presso un laboratorio
di analisi dove capitava anche di dover andare ad effettuare terapie endovenose
a domicilio. Una volta accettai di effettuare una terapia con ferro per
via endovenosa ad un paziente anziano.
Allora non ero cosciente dei rischi a cui si poteva andare incontro effettuando
un tale tipo di terapia. Il mio paziente andò in «schoc»
ed io non avevo con me del cortisone. Arrivò l’ambulanza
e tutto finì per il meglio, ho ancora vivo il ricordo di quei momenti
di paura.
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