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Dott. Luigi Guacci
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Professione di fede
Intervista al Dott. Duilio Bagnanelli
del Dott. Luigi Guacci
Diaconia
Medica Missionaria
06.50.91.48.31 06.27.09.68 |
Duilio Bagnarelli
laureato
in medicina e chirurgia
Specialista
in odontostomatologia
Medico di famiglia
Perfezionato in laser-terapia
e ecografia. |
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Perché ha scelto la professione
del medico? Cosa lo ha spinto e motivato?
Mio padre era medico di famiglia quando ancora non esistevano né
le mutue né l’assistenza sanitaria e svolgeva le visite muovendosi
in bicicletta. L’esempio paterno mi ha in qualche modo indirizzato.
Mi colpì in particolare un dialogo con suo padre, persona molto
semplice, ed emigrata in America per lavorare. Mio padre, allora indeciso
tra la professione del medico e quella dell’ingegnere, gli chiese:
«Cosa devo fare?». Mio nonno, suggerendogli la professione
del medico, giustificò la scelta dicendo «mentre fai il bene
ti pagano». Nella sua semplicità aveva trovato questa risposta
che è stata tramandata da mio padre a me. Scegliamo questa professione
perché vogliamo far guarire dal male e anche se non ce ne rendiamo
conto, è pur sempre una scelta a favore del bene. Quando poi nella
nostra vita si inserisce anche la fede, ci rendiamo conto che questa è
stata una specie di vocazione, una chiamata al bene. Ci sentiamo in questo
modo in sintonia con Dio.
A ben considerare sembra però che questa “vocazione”,
appartenga ad un contesto sociale più vicino a quello di suo padre
o di suo nonno che ad oggi?
La scelta dell’operatore sanitario è sempre una scelta a
favore del bene. Essa, inizialmente inconsapevole, per alcuni diventerà
presa di coscienza, per altri invece sarà un agire privo di consapevolezza,
ma proiettato comunque verso il bene, cioè la salute, e contro
il male, cioè la malattia.
Le prescrizioni facili cosa sono: bene, male…?
È una mancanza di consapevolezza del medico nei confronti del significato
profondo di quello che fa. È un perdere di vista le ragioni della
professione.
Un binomio inscindibile dunque tra medicina e spiritualità
che Lei porta avanti nel corso della sua vita. Non a caso lei è
il coordinatore di un movimento «Diaconia medica missionaria»
che ha alla base proprio questo tipo di certezza. Ce ne vuole parlare?
Nel 1997 con un gruppo di amici ci siamo resi conto che esisteva questa
scelta per il bene nella nostra esperienza professionale profonda, ed
abbiamo deciso di unirci per condividere questo bene che ognuno di noi
aveva dentro per poterne così trarre una testimonianza di fede
nel nostro lavoro. Diaconia medica missionaria nasce così: non
è una associazione, non è un opera di volontariato, ma è
un movimento tra operatori sanitari. Si tratta di sfruttare la naturalezza
che acquistiamo condividendo le nostre esperienze, per dare una dimostrazione
di fede nel nostro lavoro: per poterci togliere idealmente il camice e
dare una parola di conforto, un sorriso, qualcosa che possa dare sollievo
alla sofferenza di chi ti sta di fronte.
Come reagisce il paziente a questo vostro atteggiamento?
Lo recepisce con rispetto. Egli in ogni caso ci ha già dato la
propria fiducia, quella che si ripone in un medico che è l’unico
in grado di portarti alla guarigione. Così la parola in più
che nasce da un approccio privo di camice, viene recepita come un parere
importante sul quale riflettere. Questa è la grande potenzialità
che l’operatore sanitario possiede nel mondo di oggi: la possibilità
di poter stimolare una buona volontà nel bisognoso, nel paziente
che abbiamo di fronte, di avvicinare un sacerdote, di consigliarsi con
la chiesa, o perlomeno di portare avanti una riflessione individuale che
affondi nella propria spiritualità.
Quali sono i temi che approfondite più attentamente nel
percorso spirituale che vi siete prefissi?
Ci preoccupiamo soprattutto di riscoprire l’aspetto spirituale della
nostra professione. Il tema è sempre orientato verso l’obiettivo
di trovare la naturalezza che ci consente di andare al di là della
semplice prescrizione o della semplice diagnosi. In questo modo dimenticandoci
di noi stessi diventiamo più capaci di entrare nella realtà
di chi abbiamo di fronte.
Dubbi
medici
Il colon irritabile, la claustrofobia, la bulimia ecc. sono considerate
dalla nostra medicina malattie psico-somatiche, hanno cioè due
componenti: una psichica ed una fisica. Scorrendo le terapie in uso non
possiamo non rilevare che queste sono indirizzate tutte verso una sola
componente: quella psichica, mentre nessuno si occupa della componente
somatica. Non sarà per questo che queste malattie non guariscono
quasi mai? Ci sono dei colleghi in grado di darmi una definizione del
termine “somatizzazione” senza rimanere nel molto vago in
cui è stato confinato fin’ora? lguacci@libero.it
Se vuoi essere protagonista
della nostra rivista contattaci: redazione@mtmweb.it
Non vogliamo il tuo curriculum professionale ma che ci parli della tua
esperienza di medico.
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