MTM n°6
MEDICAL TEAM MAGAZINE
Anno 2 - Numero 5/6 - set/dic 2003

Il medico generico
 


Dott. Luigi Guacci
Dott. Luigi Guacci




Professione di fede

Intervista al Dott. Duilio Bagnanelli
del Dott. Luigi Guacci

Diaconia Medica Missionaria
06.50.91.48.31 06.27.09.68
Duilio Bagnarelli
laureato
in medicina e chirurgia
Specialista
in odontostomatologia
Medico di famiglia
Perfezionato in laser-terapia
e ecografia.
Dott. Duilio Bagnanelli

Perché ha scelto la professione del medico? Cosa lo ha spinto e motivato?
Mio padre era medico di famiglia quando ancora non esistevano né le mutue né l’assistenza sanitaria e svolgeva le visite muovendosi in bicicletta. L’esempio paterno mi ha in qualche modo indirizzato. Mi colpì in particolare un dialogo con suo padre, persona molto semplice, ed emigrata in America per lavorare. Mio padre, allora indeciso tra la professione del medico e quella dell’ingegnere, gli chiese: «Cosa devo fare?». Mio nonno, suggerendogli la professione del medico, giustificò la scelta dicendo «mentre fai il bene ti pagano». Nella sua semplicità aveva trovato questa risposta che è stata tramandata da mio padre a me. Scegliamo questa professione perché vogliamo far guarire dal male e anche se non ce ne rendiamo conto, è pur sempre una scelta a favore del bene. Quando poi nella nostra vita si inserisce anche la fede, ci rendiamo conto che questa è stata una specie di vocazione, una chiamata al bene. Ci sentiamo in questo modo in sintonia con Dio.
A ben considerare sembra però che questa “vocazione”, appartenga ad un contesto sociale più vicino a quello di suo padre o di suo nonno che ad oggi?
La scelta dell’operatore sanitario è sempre una scelta a favore del bene. Essa, inizialmente inconsapevole, per alcuni diventerà presa di coscienza, per altri invece sarà un agire privo di consapevolezza, ma proiettato comunque verso il bene, cioè la salute, e contro il male, cioè la malattia.
Le prescrizioni facili cosa sono: bene, male…?
È una mancanza di consapevolezza del medico nei confronti del significato profondo di quello che fa. È un perdere di vista le ragioni della professione.
Un binomio inscindibile dunque tra medicina e spiritualità che Lei porta avanti nel corso della sua vita. Non a caso lei è il coordinatore di un movimento «Diaconia medica missionaria» che ha alla base proprio questo tipo di certezza. Ce ne vuole parlare?
Nel 1997 con un gruppo di amici ci siamo resi conto che esisteva questa scelta per il bene nella nostra esperienza professionale profonda, ed abbiamo deciso di unirci per condividere questo bene che ognuno di noi aveva dentro per poterne così trarre una testimonianza di fede nel nostro lavoro. Diaconia medica missionaria nasce così: non è una associazione, non è un opera di volontariato, ma è un movimento tra operatori sanitari. Si tratta di sfruttare la naturalezza che acquistiamo condividendo le nostre esperienze, per dare una dimostrazione di fede nel nostro lavoro: per poterci togliere idealmente il camice e dare una parola di conforto, un sorriso, qualcosa che possa dare sollievo alla sofferenza di chi ti sta di fronte.
Come reagisce il paziente a questo vostro atteggiamento?
Lo recepisce con rispetto. Egli in ogni caso ci ha già dato la propria fiducia, quella che si ripone in un medico che è l’unico in grado di portarti alla guarigione. Così la parola in più che nasce da un approccio privo di camice, viene recepita come un parere importante sul quale riflettere. Questa è la grande potenzialità che l’operatore sanitario possiede nel mondo di oggi: la possibilità di poter stimolare una buona volontà nel bisognoso, nel paziente che abbiamo di fronte, di avvicinare un sacerdote, di consigliarsi con la chiesa, o perlomeno di portare avanti una riflessione individuale che affondi nella propria spiritualità.
Quali sono i temi che approfondite più attentamente nel percorso spirituale che vi siete prefissi?
Ci preoccupiamo soprattutto di riscoprire l’aspetto spirituale della nostra professione. Il tema è sempre orientato verso l’obiettivo di trovare la naturalezza che ci consente di andare al di là della semplice prescrizione o della semplice diagnosi. In questo modo dimenticandoci di noi stessi diventiamo più capaci di entrare nella realtà di chi abbiamo di fronte.


Dubbi medici
Il colon irritabile, la claustrofobia, la bulimia ecc. sono considerate dalla nostra medicina malattie psico-somatiche, hanno cioè due componenti: una psichica ed una fisica. Scorrendo le terapie in uso non possiamo non rilevare che queste sono indirizzate tutte verso una sola componente: quella psichica, mentre nessuno si occupa della componente somatica. Non sarà per questo che queste malattie non guariscono quasi mai? Ci sono dei colleghi in grado di darmi una definizione del termine “somatizzazione” senza rimanere nel molto vago in cui è stato confinato fin’ora? lguacci@libero.it

 

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