MTM n°14
MEDICAL TEAM MAGAZINE
Anno 5 - Numero 1 - gen/giu 2006
Malattie rare
 





Anno 5 Numero 1
gen/giu 2006

 

Nei pazienti affetti da questa patologia le cellule si sviluppano in maniera anomala e possono provocare ritardo mentale, epilessia, autismo, problemi comportamentali, e forme tumorali a danno del cervello, dei reni, del cuore…



Sclerosi tuberosa: il caso di Francesca
Una malattia genetica che colpisce 1 persona su 7.000 nel mondo

del Dott. Giuseppe D’Amato

FrancescaFrancesca è una ragazza mite, serena, disponibile e sorridente, ma purtroppo è disabile, la sua malattia è la Sclerosi Tuberosa, malattia genetica rara che colpisce circa 1 persona su 7000 nel mondo. Nei pazienti affetti da questa patologia, le cellule si sviluppano in maniera anomala e possono provocare ritardo mentale, epilessia, autismo, problemi comportamentali e forme tumorali a danno del cervello, dei reni, del cuore, dei polmoni, degli occhi e della pelle. I sintomi si manifestano in maniera diversa, da persona a persona, ed è quindi assai difficile poter fare una diagnosi precoce e tempestiva della malattia. Per Francesca, è stata sufficiente una Tac cerebrale e la diagnosi attenta e, sfortunatamente, “indovinata” del neurologo che l’aveva in cura nel lontano 1981, a meno di tre anni di vita. Anzi è stato allora che confrontando la sua Tac con la mia si è potuto capire chi fosse il genitore che gliela aveva trasmessa. Solo che mentre nel sottoscritto al di là di episodi di epilessia, ormai ben controllati e debellati dai farmaci assunti non ha procurato altri danni, in Francesca a livello cerebrale, oltre a portare crisi epilettiche e un ritardo mentale, che è andato via-via aggravandosi con il passare degli anni, si è manifestato nella forma peggiore e cioè con la formazione di un “astrocitoma” tumore benigno, ma non per questo meno invasivo, che le è stato asportato all’età di 9 anni in un intervento durato un’intera giornata e le cui complicazioni post operatorie [infezione alle meningi e all’encefalo, con necessario ricovero in isolamento per tre mesi, ritorno per 6 volte in sala operatoria per rimuovere focolai infettivi] hanno in gran parte compromesso il successivo sviluppo mentale.
Il suo problema dunque è la disabilità [quella che con un gentile eufemismo viene chiamata diversa abilità] o come si dice in inglese “handicap”, che letteralmente significa svantaggio, intralcio, difficoltà. Non per niente nello sport quando un concorrente ha un handicap vuol dire che gli è stata comminata una penalizzazione o inizia la gara in condizioni di inferiorità. Ma la disabilità è anche e soprattutto un problema per gli altri, anzi, spesso per gli altri rappresenta comunque qualcosa che nella migliore delle ipotesi infastidisce o causa un senso di disagio: risveglia la nostra coscienza troppo spesso assopita nel tran-tran quotidiano, provoca un istinto di fuga o un desiderio di distogliere lo sguardo, perché vorremmo che la nostra vita scorresse serenamente e ci vorremmo illudere che possa esistere un mondo perfetto in cui tutti stanno bene solo perché stiamo bene noi. Già è difficile confrontarsi con l’handicap fisico, quello dei ciechi, degli zoppi, dei paralitici, di coloro che hanno perso un arto o hanno un’invalidità ben visibile, figuriamoci quando si tratta di una inabilità invisibile, ma non per questo meno drammatica. Mentre l’invalido fisico non è minato nelle proprie facoltà di apprendimento e di espressione ed ha la forza, sia individuale che collettiva di alzare la voce e farsi sentire [anche se ancora non basta], l’invalido mentale è solo con la sua impossibilità e incapacità di farsi ascoltare e deve per forza di cose ricorrere all’aiuto altrui, e poco si fa per rendere più sopportabile la sofferenza di chi non ha alcuna colpa e non ha scelto di trovarsi in una situazione che, nella migliore delle ipotesi, coinvolge anche i famigliari. Ancora lontana appare infatti un’integrazione nell’ambiente sociale e il confronto con lo stesso ambiente. Non solo i disabili, ma anche i sani dovrebbero imparare ad affrontare l’invalidità, perché soltanto in questo modo si potrà sperare di superare le difficoltà, le paure, i fastidi, gli imbarazzi e il senso di vergogna che avvolge il mondo dell’handicap, sia per chi ne fa parte, sia per chi ne è o se ne sente al di fuori.
Nel momento in cui Francesca ha avuto bisogno di cure odontoiatriche, perfino un’ortopanoramica è divenuta un problema, è stato sufficiente trovare un tecnico addetto all’esame di una pignoleria esagerata, ed ecco che Francesca si è trasformata in una persona “insofferente e agitata”, che andava sottoposta a una serie di tentativi per poter ottenere un buon risultato e che, tra un tentativo e l’altro, sarebbe stato opportuno mandare a fare una passeggiata per rilassarsi, quando più probabilmente ad averne bisogno era il tecnico, visto che ad ogni tentativo si infastidiva sempre di più e soprattutto sembrava non capire di avere a che fare con una ragazza a cui non si può chiedere una collaborazione perfetta visto che, non per colpa sua, è portatrice di handicap.
In questo contesto si inserisce l’incontro, recentissimo, con il prof. Raimondo che avevamo visto mesi fa in televisione, e di cui ci aveva colpito la particolare attenzione riservata ai pazienti con problemi di handicap, tanto difficili da trattare per gli specialisti “tradizionali” e, spesso, emarginati in lunghi e inopportuni ricoveri per ricevere cure che in una persona qualsiasi si risolverebbero con visite ambulatoriali di breve durata. È stato sufficiente un contatto via email, una telefonata ed una visita presso il suo studio di Roma ed eccomi qui a parlarne e a partecipare con lui ad una trasmissione televisiva. Quella insensibilità a cui accennavo, e la difficoltà di controlli medici specialistici, a volte sfortunatamente indispensabili, di colpo svaniscono e l’opera infaticabile del professore è tutta tesa a far si che siano sempre meno condizionanti. Ben vengano allora medici e operatori sanitari in grado di rapportarsi a pazienti “diversi”, ma non per questo meno sensibili e soprattutto molto più bisognosi di cure ed attenzioni.
Sono entrato in contatto con l’Associazione Sclerosi Tuberosa casualmente, eravamo stati a fare un controllo EEG a Grottaferrata presso il Villaggio Eugenio Litta, ed abbiamo scoperto che ci trovavamo nei locali messi a disposizione dall’Università di Torvergata per l’associazione nata a tutela dei ragazzi che ne erano affetti “con l’intento di diffondere informazioni riguardanti questa patologia sia nel mondo medico sia nella popolazione per aiutare la ricerca scientifica, promuovere i diritti, incentivare l’integrazione nella società e interagire con le istituzioni” e che di lì a qualche mese si sarebbe svolta l’assemblea nazionale. Siamo andati, mia moglie ed io, più che altro mossi dalla curiosità e per capire di cosa si trattasse e… ad essere sinceri non è che ne avessimo ricavato una grande impressione… discorsi molto belli in teoria, ma molti lati oscuri, forse dovuti anche alla nostra scarsa conoscenza della malattia e dei suoi aspetti sociali… un gran parlare di denaro, come se la raccolta fondi fosse lo scopo essenziale da perseguire, insomma… un certo senso di disagio, un sentirsi in qualche modo un pesce fuor d'acqua, l'impressione di una scarsa utilità e di un apporto ancor più insignificante... e fondamentalmente un po’ di delusione. Anche se ci era parsa interessante l’iniziativa di finanziare una borsa di studio per la ricerca genetica sulla malattia allo staff del prof. Migone, genetista di riferimento dell’associazione stessa.
Sembrava un episodio destinato a restare isolato, ma le vicissitudini successive hanno condotto me a partecipare alle riunioni mensili dei soci del Lazio ed ancora insieme a mia moglie alle successive assemblee nazionali. In particolare determinante fu una lunga telefonata avuta con la nostra segretaria Simona Bellagambi, la cui capacità di comunicare e “interessare” è da tutti ben conosciuta. Poi i passi successivi, fino ad un coinvolgimento sempre maggiore, non solo e non più come semplice socio, ma anche come membro del Consiglio Direttivo e alla partecipazione sempre più intensa alle attività pratiche, intese anche come lavoro di ufficio, e di preparazione delle diverse iniziative. Oggi, grazie principalmente all’opera infaticabile di quella “forza della natura” che è la nostra presidente Velia Lapadula, l’AST è cresciuta in modo evidente, sono ormai quattro anni che viene organizzata la vacanza associativa che è diventata un vero e proprio momento di aggregazione, sono stati finanziati diversi progetti scientifici e risolte situazioni di particolare disagio, e l’anno prossimo si terrà a Roma il convegno mondiale della S.T. impegno questo di particolare rilievo e ovviamente, per quello che comporta a livello organizzativo, piuttosto difficile e stimolante.
Insomma la situazione è in continua evoluzione, e sono convinto che chiunque abbia partecipato all’ultima assemblea, e alle attività colletaterali, si sia sentito parte integrante di un progetto, di un movimento che cresce anche e soprattutto a livello di solidarietà, in grado di comunicare entusiasmo e trasmettere una sensazione di appartenenza al gruppo, e vedo le persone che mi circondano via-via più motivate a continuare un processo che non può non essere di crescita, sempre nella speranza che un giorno, speriamo non troppo lontano, si riescano a trovare delle cure che possano, almeno in parte, essere di reale aiuto e conforto per i nostri malati.