Shujaa Graham, una condanna di morte per la vita L’ex detenuto è uno dei venti «dead man» degli Stati Uniti scampati all’esecuzione
di Nicoletta Alborino
Quando ti restituiscono la vita,
dopo anni in cui ti hanno fatto credere che non aveva valore, in
cui ti hanno detto che bisognava “vivere” solo per attendere
il giorno dell’esecuzione, allora… solo allora capisci
il furto cha hai subito. Sei fuori, sei libero. Bello, bellissimo,
tanto da non riuscire più a riconoscere le proprie emozioni.
Finalmente puoi, devi uscire dal braccio della morte, però
prendi tempo, sei stato in una cella per quasi dieci anni, pensi
che il tuo primo istinto sarà quello di correre fuori, invece
ti fermi, sei come in trance, in fondo per ben dieci anni la vita
si è svolta in pochi metri quadri con un’unica immaginaria
finestra sul mondo e gli occhi fissi nel vuoto persi in lontani
ricordi.
Shujaa Graham, americano, è il ventesimo condannato a morte
riconosciuto innocente e liberato. Entrato in galera a 18 anni,
ne è uscito a 31. Prosciolto dall’accusa di omicidio,
dopo 4 processi.
Nato in Louisiana nel ’51, si è trasferito a Los Angeles
con i genitori in una zona di South Central. Rubava macchine, a
18 è finito in riformatorio, quattro anni dopo è stato
arrestato per una rapina di 35 dollari in un negozio. E condannato
all’ergastolo. L’accusa ha sostenuto che fosse armato.
In galera ha imparato a leggere e a scrivere. Nel novembre del ’73
durante una rivolta carceraria è stata un’uccisa una
guardia bianca a pugnalate. Hanno colto l’occasione per fargli
pagare il sostegno per i diritti dei neri, per i diritti civili.
L’accusato ideale: nero e rompiscatole. Aveva precedenti e
così è stato condannato a morte. Una sera del ’79
la Corte Suprema della California decide di cambiare verdetto, non
deve più morire. A questo punto inizia la battaglia per la
revisione del processo, nel terzo la giuria è spaccata a
metà, non riesce a decidere, nel quarto finalmente viene
assolto.
Graham oggi vive nel Maryland, gestisce una piccola compagnia che
si occupa di giardinaggio, ha moglie, conosciuta in carcere, dove
faceva l’infermiera, e tre figli, due ragazze e un maschio
e ben tre nipoti. Un padre adorato e rispettato, sono stati proprio
i suoi figli a dargli la forza di riprendere a vivere e sono stati
proprio loro ad insistere affinché continuasse a girare il
mondo per far conoscere al mondo la sua storia, per testimoniare
il valore della dignità umana.
La vita, fuori. All’improvviso. «Riabituarsi è
dura. Le macchine vanno più veloci, tutto corre, non sono
abituato alle tastiere del computer, al cellulare. Sembra una stupidata,
ma mi ritrovo incapace, quasi invalido. Mi allaccio le scarpe e
mi viene voglia di piangere. Per la speranza rubata. Che io ho riavuto,
ma altri no. Per la sofferenza di quelli che non hanno evitato il
boia. La sento mia, fino in fondo. È un veleno che non riesci
a eliminare, è come essere seppelliti e poi togliersi via
la terra. Non ce la fai del tutto, ti resta sempre qualche granello.
La pena di morte puzza, inquina la libertà, per questo va
eliminata».
I DATI SULLA PENA DI MORTE
Sono 128 i paesi che hanno abolito la pena di morte nella legge
o nella pratica: 88 sono abolizionisti per tutti i reati, 11 per
reati eccezionali, in 29 non si registrano esecuzioni da almeno
dieci anni oppure hanno assunto un impegno a livello internazionale
a non eseguire condanne a morte. I paesi mantenitori sono 69 ma
il numero dove le condanne a morte sono eseguite è molto
più basso. Di seguito le condanne a morte eseguite nel 2006,
secondo i dati a disposizione di Amnesty International [tenendo
conto che in alcuni paesi asiatici e mediorientali il totale potrebbe
essere molto più elevato]:
Arabia Saudita almeno 31
Bahrain 3
Cina non quantificabile
Giordania almeno 4
Egitto almeno 2
Indonesia 3
Iran almeno 159
Iraq almeno 51
Kuwait 9
Pakistan almeno 70
Somalia almeno 3
Stati Uniti d’America 52
Vietnam almeno 13
Yemen almeno 2
[Dati aggiornati al 13 dicembre 2006 - fonte: AMNESTY INTERNATIONAL]
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