La morte cerebrale e la
fine della vita
di Rosangela Barcaro
È stata International Visiting Scholar presso lo Hastings Center di New York e borsista presso la Westfälische Wilhelms-Universität, Katholisch Theologische Fakultät-Seminar für Moraltheologie, Münster.
Ha pubblicato diversi articoli su temi di bioetica.
Esistono
tre tipi di criteri per accertare il decesso dell’essere umano:
anatomico, fondato sulla constatazione della distruzione corporea;
cardiocircolatorio, basato sull’evidenza clinica e strumentale
della protratta assenza di battito cardiaco e di circolazione sanguigna;
neurologico. Quest’ultimo criterio si applica a pazienti con
lesioni cerebrali tali da comportare dipendenza dalle apparecchiature
per la rianimazione e la ventilazione artificale; i medici che devono
accertarne la morte devono documentare uno stato che l’art.
1 della legge n. 578/1993 [Norme per l’accertamento e la certificazione
di morte] identifica con il decesso dell’essere umano: «la
cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».
Nella sua decisione il legislatore italiano ha dato credito ad una
serie di studi internazionali, condotti per lo più tra gli
anni Settanta ed Ottanta del Novecento, secondo i quali l’encefalo,
incluso il tronco encefalico, è responsabile del controllo,
integrazione e funzionamento coordinato dell’organismo. L’intero
encefalo sarebbe, in altre parole, l’integratore centrale,
e la cessazione delle sue funzioni trasformerebbe l’organismo
in una mera collezione di organi, le cui attività sono destinate
a spegnersi più o meno celermente. Studi più recenti,
condotti da neurologi principalmente statunitensi e britannici,
hanno messo in dubbio questa teoria ed hanno contribuito ad avviare
un diffuso dibattito internazionale sull’impiego e l’affidabilità
dei criteri neurologici per determinare la morte. Non si tratta,
se non a prima vista, di una questione meramente medicobiologica,
la cui analisi debba essere lasciata agli specialisti. È
un problema ben più ampio, dal momento che il criterio neurologico
della cosiddetta morte cerebrale totale è entrato nella pratica
medica, è stato accolto nella giurisprudenza, e rappresenta
un prerequisito - tecnico ed etico - fondamentale affinché
sia lecito il prelievo di organi vitali dispari [ad es. il cuore]
da destinare al trapianto. Mettere in dubbio la teoria dell’integratore
centrale comporta un ripensamento radicale delle modalità
di dichiarazione del decesso e del reperimento degli organi per
il trapianto.
Nel
nostro paese queste ricerche sono purtroppo poco note ed il dibattitto
è circoscritto a pochi esperti. È per questo molto
significativa la decisione del Consiglio Nazionale delle Ricerche
di finanziare una pubblicazione, curata da Roberto de Mattei ed
intitolata Finis Vitae. Is Brain Death Still Life? [C.N.R.-Rubbettino,
Soveria Mannelli 2006] nella quale sono raccolti i contributi di
autorevoli studiosi conosciuti a livello internazionale. Il volume,
presentato al pubblico italiano durante una conferenza tenutasi
a Roma il 13 dicembre 2006, raccoglie, tra le altre, le voci di
neurologi, giuristi, filosofi e teologi che hanno partecipato all’incontro
promosso nel febbraio 2005 dalla Pontificia Accademia per le Scienze
e dedicato all’esame de I SEGNI DELLAMORTE.
Gli interventi raccolti nel volume, e la discussione di cui essi
sono stati oggetto durante la presentazione, mostrano che è
ormai difficile sostenere, sia sotto il profilo scientifico che
sotto quello etico-filosofico, che i pazienti che abbiano subìto
estese lesioni cerebrali sono cadaveri. Ancorché privi di
coscienza e dipendenti da ventilazione polmonare artificiale, il
loro organismo conserva funzioni, quali controllo neurormonale,
equilibrio idrosalino, guarigione delle ferite, che sono espressione
della permanenza di integrazione corporea. La conclusione alla quale
sono giunti gli autori dei saggi è semplice e sconvolgente:
la condizione denominata morte cerebrale è ancora vita, e
il paziente in tale stato è ancora vivo. La più immediata
conseguenza di ciò è che prelevare organi da questi
soggetti ne provoca il decesso. Se è davvero così,
nei prossimi anni la riflessione bioetica dovrà affrontare
la sfida che fino ad oggi aveva evitato, e il legislatore dovrà
fare sostanziali modifiche ad una impostazione giuridica che solo
qualche anno fa sembrava aver messo tutti d’accordo.
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