Sul rapporto medico-paziente
Non si può analizzare questo rapporto prescindendo dai valori e dai modelli
à
di Enrico Pugliese
Da non esperto vorrei puntualizzare qualcosa
in materia al rapporto tra medico e paziente
inquadrandolo nei diversi contesti sociali
nei quali esso si verifica. Ciò perché non
credo che si possa analizzare questo rapporto
prescindendo dai valori e dai modelli
culturali prevalenti in una determinata società:
all’interno di questi il ruolo del medico
[e ovviamente il suo rapporto con il paziente]
è visto in maniera molto diversa.
Si pensi solo all’uso che si fa del pronome
personale tra medico e paziente in contesti
diversi. In America [Stati Uniti] il medico generico
dà del tu a tutti i suoi pazienti quale
che sia la loro classe sociale e quale che sia
la loro età. In Italia un medico di famiglia beneducato
dà del lei a tutti suoi pazienti
[tranne quelli con i quali è in rapporto di
stretta e personale amicizia]. Per quel che ne
so solo ai bambini e ai ragazzi i medici usano
dare del tu.
Un mio amico preside della Facoltà di Sociologia
e studi di comunità di uno dei campus
dell’Università della California vantava
come operazione temeraria quella di aver risposto,
dandogli del tu, al suo medico che
naturalmente gli stava dando anch’egli del
tu. Non ricordo quale fosse il rapporto di età
tra i due ma ricordo benissimo che il mio collega
era già ultracinquantenne. Può piacere
o no la cosa, ma nella misura in cui il rapporto
è istituzionalizzato in questi termini,
l’uso del “tu paterno” è meno grave di quanto
non risulterebbe in Italia ora. In questo caso
l’uso del tu -che alla nostra sensibilità di
italiani può davvero sembrare inopportuno
e maleducato- non è grave, tranne ovviamente
per un’implicita forma di paternalismo
che può riferirsi agli aspetti simbolici o
agli aspetti reali.
E qui passiamo dalla forma alla sostanza. In
Italia quando la distanza sociale tra coloro i
quali esercitavano le professioni liberali
[medici, avvocati e quant’altro] e la loro
clientela era molto elevata ed essa veniva ribadita
e sottolineata nel rapporto tra medico
e paziente. Il paziente, frequentemente contadino, si rivolgeva naturalmente al medico
con il don [almeno nel Mezzogiorno]
dando del voi o del lei [al Nord]. Il medico
dava del tu al paziente di classe sociale bassa,
utilizzando in questo caso non il “tu paterno”
bensì il “tu paternalista”. Quest’abitudine,
con il passaggio dell’Italia da società
rurale a società industriale e post-industriale,
è stata ormai largamente superata e
i rapporti sono più civili.
La sostanza riguarda specificamente l’attenzione
e il rispetto che il medico deve avere
nei suoi rapporti con il paziente. E anche
in questo caso i modelli – al di là della deontologia
codificata, della quale qui non potrei occuparmi - variano da paese a paese. Così
negli Stati Uniti l’American Medical Association
ha sempre sottolineato la necessità di
una distanza forte tra medico e paziente che
tenga il medico in una sfera particolare con
caratteristiche carismatiche e con un implicito
rapporto di autorità. Insomma l’operato
del medico deve essere svolto lontano da
emozioni, affetti e curiosità. Non a caso il
rapporto medico-farmacista si caratterizza
per la totale estraneità e passività del paziente
che non conosce i dettagli del contenuto
delle prescrizioni. D’altronde era così
una volta anche da noi quando le ricette del
medico le sapeva decifrare solo il farmacista.
Il diritto all’informazione del paziente veniva
così precluso nell’assunto di una condizione
di minorità del paziente stesso o comunque
in una concezione che faceva del
paziente un oggetto sul quale la competenza
e la responsabilità del medico si esercitava
senza alcuna forma di scambio.
Ora le cose sono cambiate. E di nuovo qui il
contesto sociale risulta essere molto importante
giacché diverse sono le situazioni tra un
paese e l’altro e anche all’interno di uno stesso
paese. Passiamo da situazioni in cui il servizio
medico ha carattere assolutamente privato
e il paziente - insieme alla prestazione -
può acquistare anche il tipo e il carattere del
trattamento umano e personale da parte del
medico [e soprattutto del personale ausiliario],
a situazioni in cui il servizio medico è
gratuito e fornito dallo Stato magari da personale
di grande qualità ma modestamente
retribuito, nel qual caso le procedure e i rapporti
sono altamente standardizzati. Naturalmente
ci sono una serie di situazioni intermedie
ma in Europa il modello prevalente
è quello del servizio pubblico mentre quello della medicina privata e personalizzata è -
o almeno dovrebbe essere- l’eccezione.
In questo caso, nel caso del servizio pubblico
standardizzato, nuove variabili devono
intervenire tenendo conto del particolare
stato di sofferenza psicologica nel quale il
paziente si può venire a trovare anche per
una malattia fisica di modesta gravità. Se il
modello, per così dire americano, cui abbiamo
prima accennato, contempla la istituzionalizzazione
della dipendenza del paziente,
è tuttavia vero che il paziente tende
comunque a sentirsi dipendente e ad aspettarsi
dal medico un’attenzione complessiva
alla sua persona, al suo essere soggetto sociale,
oltre che ovviamente un’attenzione
tecnica efficace e impeccabile. Sta proprio in
questa dialettica che l’atteggiamento del paziente
nei confronti del medico determina il
problema nel quale il medico deve districarsi.
Da una parte c’è la pretesa del paziente,
quale soggetto di diritto, che pretende
il trattamento efficace, dall’altra c’è lo
stesso paziente che è per definizione debole
e indifeso [verrebbe da dire “lo dice la parola
stessa”: paziente].
Nella società di oggi -con tutte le differenze da
contesto a contesto -da paese a paese, è
emersa sempre più chiaramente
la necessità di un rapporto con il
paziente che tenga conto della
complessità della sua figura: un
rapporto “olistico”, come si dice
ora. La crescente specializzazione
tecnica, dovuta anche ai progressi
della ricerca scientifica in
medicina, comporta l’emergere
di una molteplicità di figure tutte
distinte che si occupano per
definizione solo di una piccola
parte del problema del paziente. Certamente
ciascuno di essi può avere un rapporto caratterizzato
da maggiore o minore rispetto
nei confronti del paziente [attenzione, cortesia,
puntualità e quant’altro] ma resta comunque
limitato alla sua sfera, è così che il
paziente di oggi si trova senza un punto di riferimento
generale proprio nei momenti in
cui il suo caso diventa complesso.
Questo è vero in generale ma diventa sempre
più vero con l’emergere di una categoria di
pazienti sempre in espansione [e quindi destinata
a crescere ulteriormente] che è quella
dei pazienti anziani. In questo caso i problemi
e le malattie si intrecciano e la domanda
alla quale il medico è sottoposto è anche
più vasta e profonda del necessario o, comunque,
della risposta che il medico può dare.
Alcuni dei problemi che gli anziani esprimono
spesso non riguardano il malessere fisico
in senso stretto ma sono il riflesso di problematiche
più generali, in primo luogo la
solitudine e il bisogno di comunicare. In questo
caso non è più nel rapporto medico paziente
il problema ma nel rapporto paziente,
anzi persona, e società. E qui si aprirebbe
tutto un capitolo sulla questione della prevenzione
che esula da queste brevi note.
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