La legislazione italiana in tema di unioni di fatto
del Prof.
Giovanni Pellettieri
Da tempo oramai si è sviluppato un ampio
dibattito sulla possibilità di riconoscere diritti
alle unioni di fatto e, nell’ambito di queste,
la parità tra coppie eterosessuali ed omosessuali.
Trattandosi di un fenomeno che ha
ormai acquistato dimensioni socialmente
imponenti, numerosi Paesi si sono già dotati
di una legislazione volta a regolamentare le
c.d. unioni civili, e cioè tutte quelle forme di
convivenza fra due persone, dello stesso o di
diverso sesso, legate da vincoli affettivi ed
economici, che non accedono volontariamente
all’istituto giuridico del matrimonio,
o che sono impossibilitate a contrarlo.
In particolare e per quanto attiene ai paesi
dell’Unione europea, il quadro relativo alla
legislazione sulle convivenze è oggi molto
variegato: alcuni Paesi hanno adottato l’unione
registrata, chiamata anche partnership
o coabitazione registrata, che garantisce
specifici diritti e doveri anche alle coppie dello
stesso sesso oltre che alle convivenze formate da uomo e donna:
è il caso del Pacs ["Patto civile di solidarietà"] approvato in Francia
e dei DICO [mai approvati] in Italia. Altri Paesi hanno scelto di regolarizzare
le unioni civili con la coabitazione non registrata, con la
quale alcuni diritti e doveri sono automaticamente acquisiti dopo
uno specifico periodo di coabitazione. Da ultimo, alcuni Paesi europei
- ad oggi, Olanda, Belgio e Spagna - oltre ad aver approvato il
riconoscimento giuridico delle coppie non coniugate di qualunque
sesso, hanno aperto il matrimonio alle coppie dello stesso sesso per
realizzare la parità perfetta tra etero e omosessuali.
In Italia, come sopra accennato sono state presentate due proposte
di legge, nel 2002 sulle unioni civili e nel 2007 sui c.d. Dico, mai approvate
definitivamente, entrambe fondate sul presupposto che il
pluralismo della nostra società non consente più di imporre alle famiglie
non tradizionali una drastica scelta fra due sole opzioni: il matrimonio
da una parte, l’assenza assoluta di qualsiasi riconoscimento
giuridico e perfino di tutela in caso di eventi imprevisti dall’altra. A
tal fine, sembra utile sinteticamente illustrare i profili giuridici relativi
alla ammissibilità, estensione ed ai limiti costituzionali nel nostro
ordinamento di una siffatta regolamentazione.
In proposito, il primo comma dell’art. 29 della Costituzione non pone
alcun ostacolo a questo riconoscimento, perché, nel sancire che
«La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio», non esclude espressamente il riconoscimento
di altre forme di convivenza familiare.
Del resto, una norma cardine del nostro ordinamento costituzionale,
l’articolo 3 primo comma, affermando il principio dell’uguaglianza
formale fra i cittadini, impone che situazioni giuridiche uguali siano
trattate in modo uguale. Così, quando situazioni giuridiche proprie
alle famiglie tradizionali siano identiche a quelle proprie a famiglie
non tradizionali, queste ultime devono essere trattate in modo
identico.
E ancora l’art. 29 primo comma, colloca la tutela della famiglia nel
quadro del sistema delle autonomie riconosciute alle “formazioni sociali
intermedie” e, tra queste, ben possono essere comprese anche le “famiglie di fatto”, come pacificamente riconosciuto da dottrina
e giurisprudenza. Quanto alle unioni omosessuali, occorre rilevare
che, in termini di stretto diritto, il citato art.29 Cost. non si richiama
ad una diversità di genere dei coniugi. Diversamente opinando, cioè
che questa norma presupponga, invece, la eterosessualità dei coniugi
ed in difetto di una qualsivoglia disciplina sulle unioni di fatto
comunque connotate, le coppie omosessuali, disposte a contrarre
validamente il vincolo matrimoniale, rimarrebbero [diversamente
dalle coppie eterosessuali] prive del riconoscimento dei diritti personali
e patrimoniali derivanti dal loro legame affettivo. La tutela di
diritti della persona che originano dal rapporto di convivenza omosessuale,
richiedono, dunque e in maniera ancora più evidente, una
qualche forma di riconoscimento e di tutela. Perché, da un siffatto
deficit di tutela, consegue la lesione dei diritti inviolabili della persona,
a cui non sarebbe consentito, né il pieno svolgimento della
propria personalità, né l’esercizio dei diritti e l’adempimento dei doveri
di solidarietà nell’ambito della propria relazione affettiva e del
proprio regime di convivenza [art. 2 Cost.]; dandosi luogo, quindi,
ad una inammissibile discriminazione fondata sull’orientamento
sessuale [art. 3 Cost.].
Giova ricordare, inoltre, che il riconoscimento delle convivenze di
fatto, anche omosessuali, è stato al centro di precise sollecitazioni
comunitarie: di recente, infatti, la direttiva UE n. 38 del 2004 prevede
il diritto all’ingresso e soggiorno nell’ambito comunitario del
partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabilmente
attestata.
Come richiesto da principi sempre più acquisiti dalla coscienza civile
e giuridica europea, sembra, dunque, necessaria una qualche tutela
delle forme di convivenza di fatto [eterosessuale ed omosessuale],
seppure nei limiti della discrezionalità legislativa e del principio
di ragionevolezza. La parità di diritti per i cittadini omosessuali
potrà infatti dirsi realizzata solo quando sarà loro consentito di scegliere
di regolare la loro vita e i loro rapporti giuridici e patrimoniali,
avendo il diritto di scelta fra le stesse alternative di cui fruiscono
i cittadini eterosessuali.
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