Immigrati in Italia: tra respingimenti
e radicamenti
Gli immigrati sono utilizzati in Italia nell’industria e nel terziario. Concorrono al PIL, mandano i figli a scuola.
Ma sono considerati tendenti alla devianza. Da cui processi di negazione, di marginalizzazione, norme restrittive,
respingimenti, sperequazioni con gli italiani
di Maria Immacolata Macioti
SONO ORMAI CIRCA TRENTA ANNI che sono giunti
in Italia consistenti flussi migratori: da allora
gli immigrati fanno parte della nostra
storia, della vita quotidiana. Molti hanno
vissuto fenomeni di radicamento, facendosi
raggiungere dalla moglie, dai figli.
Bambini sono nati su suolo italiano.
Le scienze sociali hanno seguito e accompagnato
questi arrivi. Hanno studiato da
presso le difficoltà dell’inserimento in un
paese straniero, i meccanismi di inclusione/
esclusione. Gli stranieri, scriveva G.
Simmel, sono sospesi tra due culture: quella
che hanno lasciato dietro di sé, quella in
cui vorrebbero entrare. La nostalgia è un tema
che da sempre accompagna i migranti:
nostalgia per il paese che si è lasciato, per gli
amici, il paesaggio noto, le abitudini consolidate,
la famiglia allargata. Per un mondo
che sta già cambiando mentre si inizia
un percorso migratorio. Che provocherà
certamente delusioni in chi vi dovesse tornare,
dopo anni, con l’illusione di ritrovare
un universo amico, immobile, in attesa. E
d’altro canto non sempre è semplice l’inserimento
nella nuova realtà, che spesso si difende
dalle novità, respinge il confronto,
emargina i nuovi arrivati pur di non mettersi
in discussione, di non dover rivedere i
propri valori, la propria auto immagine.
È difficile vivere oggi, da immigrato, in Italia.
La normativa, che tra il 1986 e il 1990
sembrava aver fatto progressi [nel 1986 si
erano riconosciuti agli immigrati che erano
in Italia con un lavoro dipendente uguali diritti
rispetto agli italiani; poi, con la legge 39
del 1990, si era aperta la possibilità di un lavoro
regolare anche per i lavoratori indipendenti]
si è mostrata poi sempre meno
propensione a comprendere le difficoltà di
questa parte della popolazione. Presto gli
immigrati hanno perso il diritto di venire in
Italia dietro garanzia di uno sponsor per
cercare lavoro [legge 189/02, nota come
Bossi-Fini] e sono nate le quote. La perdita
del lavoro diventa una tragedia passibile di
espulsione. Altre misure restrittive sono più
recenti: gli immigrati possono fare domanda
per una casa popolare solo dopo dieci
anni di residenza nel territorio nazionale o di cinque nello stesso comune [e la mobilità
è alta, tra gli immigrati: si va laddove c’è
lavoro], con un peggioramento rispetto alla
normativa precedente¹. Una misura voluta
per proteggere gli italiani? Ma le graduatorie
tutelano il riconoscimento dei diritti.
La modifica dell’art. 41 del Testo Unico
sull’immigrazione, che equiparava gli
stranieri titolari della carta o del permesso
di soggiorno di durata non inferiore a un
anno ai cittadini italiani, al fine della fruizione
di provvidenze e prestazioni di assistenza
sociale implica una evidente diversità
con gli italiani, con contraddizioni circa
la Costituzione, che vorrebbe tutti i cittadini
uguali di fronte alla legge.
Ancora, il decreto sulle Misure urgenti in
materia di sicurezza² dà ampi poteri ai sindaci
al fine di prevenire e contrastare fenomeni
criminosi e degrado urbano [art.6]: da
cui numerosi decreti sull’accattonaggio, in
cui si è illustrato il sindaco di Verona, sulla
prostituzione [Verona, Roma], sui lavavetri:
come se il disagio, l’insicurezza serpeggiante,
crescente tra gli italiani fosse dovuta
a qualche mendicante, a qualche lavavetri
o a donne sfruttate. O ancora, a parcheggiatori
abusivi.
La psicosi relativa alla sicurezza, che ha accompagnato
gli ultimi tempi del governo
Prodi ed è stata ben presente fin dai primi
tempi del governo Berlusconi, ha avuto come
corrispettivo misure punitive non sempre
applicabili, che lasciano irrisolte le cause
dei problemi, preferendo punire chi ne
soffre: come si è fatto e si va facendo con i
rom, i cui campi abusivi vengono abbattuti
e gli abitanti esportati fuori dai centri abitati.
A Roma, fuori dal raccordo anulare. A
volte vengono deportati anche da campi
«ufficiali» in altri più lontani, sempre più
affollati, con danni di ogni tipo, a partire dall’interruzione di molte buone pratiche:
basti pensare ai bambini che frequentavano
scuole che sono costretti a lasciare. Non
si pensa invece a politiche abitative, preludio
a un reale inserimento dei rom.
È venuta poi la proposta presentata dalla
Lega, fatta propria dal Ministro Maurizio
Sacconi, di negare le cure agli immigrati irregolarmente
presenti nel paese e fare obbligo
ai medici di denunciarli: e la Società
italiana di Medicina delle Migrazioni si è
detta contraria a misure del genere. Ha dichiarato
che non avrebbe denunciato gli
immigrati clandestini ammalati. Presa di
posizione che, insieme a quelle dell’Asgi,
associazione di giuristi, e di altre forze sociali
porterà alla caduta di questa norma
dalle «disposizioni in materia di sicurezza
pubblica» che istituiscono il reato di clandestinità
per gli immigrati «che entrano e
soggiornano illegalmente in Italia» [legge 15
luglio 2009]. Ma intanto il danno è fatto: gli
immigrati irregolari temono l’espulsione, i
controlli. Evitano i luoghi pubblici e, se possibile,
anche gli ambulatori medici, gli
ospedali.
La regolarizzazione di colf e «badanti», del
settembre 2009, non dà i risultati sperati:
l’emersione è più contenuta del previsto,
dovuta in parte al timore, in parte alle difficoltà
burocratiche e in buona parte alle resistenze
di molti datori di lavoro a regolarizzare
gli immigrati. Le donne più fortunate,
quelle che hanno potuto avviare le
pratiche di regolarizzazione, non di rado
hanno pagato loro la cifra che sarebbe spettata
ai datori di lavoro e hanno accettato
contratti con una retribuzione ufficiale
più bassa: avranno, in futuro, pensioni inesistenti.
Ci si è dimenticati, in Italia, del nostro passato
di emigranti sfruttati, adibiti a lavori
pesanti, biasimati pubblicamente per l’ignoranza
della lingua del luogo, per i vestiti
informi, sporchi dato che si era costretti a
dormire in strada o in locali di fortuna. Accusati
di ogni sorta di crimini³. Vittime di
tragedie preannunciate, come nel caso del
crollo della miniera a Marcinelle.
Eppure, nonostante questo clima, gli immigrati
in buona parte resistono. Continuano
a vivere, a lavorare in Italia. Producono
reddito [si calcola in 24 miliardi il loro
potenziale di spesa in Italia]. Mandano i
figli nelle scuole italiane, in classi dove troppo
spesso i bambini vengono penalizzati:
come accadeva un tempo ai figli dei migranti
italiani, come tuttora accade agli italiani
in Germania. Molte scuole italiane sono
impegnate, non da oggi, nell’accoglienza
ai figli degli immigrati, applicano buone
pratiche, sperimentano intercultura. Ma si
tratta in genere di singole iniziative, di isole
felici. Un recente studio¹ sottolinea come
i figli degli immigrati oggi presenti nelle
scuole italiane saranno parte del nostro futuro
[se non verranno espulsi al raggiungimento
del diciottesimo anno di età]: eppure,
la scuola italiana continua a perpetuare
le differenze sociali. Né è pensabile che, con
pochi fondi, con pochi insegnanti, possa fare
miracoli. Molti sperano nelle Regioni, negli
enti locali, nella loro possibilità di favorire
l’intercultura, nella speranza di un mutamento
di rotta. Urgente, se si pensa che
già ora le pensioni degli italiani anziani sono
in buona parte finanziate dagli immigrati.
Che questi lavorano nell’industria e
nei servizi, sono indispensabili alla nostra
economia, al benessere di molti e rappresentano
un’occasione per gli italiani anche
con riguardo ai consumi: aprono conti correnti
nelle nostre banche, utilizzano cellulari,
internet, carte prepagate. Comprano
case, compatibilmente con la crisi economica
e con le scarse risorse: le banche non
sembrano disponibili a offrire mutui che
coprano la maggior parte dei costi. Eppure
le ricerche indicano che gli immigrati sono
solvibili, affidabili: vogliono un futuro migliore
per sé, per i propri figli. Perché non
aiutarli per questa strada?
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1] Si veda la «Gazzetta Ufficiale» n. 195 del 21 agosto
2008, la legge n. 133/2008, recante «Disposizioni urgenti
per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica
e la perequazione tributaria», che converte, con
modificazioni, il decreto-legge 112/2008. V. in particolare
l’art. 11, Piano casa
2] Entrato in vigore il 27 maggio 2008, convertito
in legge il 24 luglio 2008
3] Basti pensare ai casi di Sacco e Vanzetti
4] G. Dalla Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi italiani.
I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?,
il Mulino, Bologna 2009
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