IMMIGRAZIONE ED INTEGRAZIONE:
BREVI CONSIDERZIONI
del Prof.
Giovanni Pellettieri
A FRONTE DI UN FENOMENO COSÌ COMPLESSO e
delicato come l’immigrazione, che certamente
necessita di una unitaria presa di coscienza
e di una organizzazione a livello centrale
delle politiche integrative, è probabile
che le tematiche e le categorie legislative possano
costituire solamente il giusto limite delle
responsabilità personali di coloro che, a
qualunque titolo, vi si trovino coinvolti.
Negli ultimi anni numerosi ed anche recenti
avvenimenti di cronaca hanno posto all’attenzione
il dibattito tra politiche per la regolamentazione
del fenomeno migratorio e
politiche sull’integrazione, sull’opportunità di considerare sufficiente
la legge come sicuro recinto per il territorio, o sull’evenienza invece
di prendere moderna coscienza del fatto che l’immigrazione, che tra
le altre cose fruisce della sempre più ampia disponibilità di mezzi di
mobilità, si leghi a doppio nodo alle dinamiche economiche che ormai
da tempo ci fanno parlare di un mondo unico, “globale”.
E che per di più, verrebbe da aggiungere, se spinta dalla ricerca del
benessere e regolamentata in modo non uniforme alla cittadinanza,
se ne lega a quelle estremità che vedono il polarizzarsi della ricchezza
a un capo e il massiccio degrado al suo opposto, favorendo
fenomeni sociali difficilmente controllabili [lavoro nero, mancanza
di cure, ingiustizia sociale], quando non malavitosi.
In questo contesto, sembra utile conoscere, seppure per grandi linee,
la normativa che regola lo status di immigrato nel nostro Paese e le
sue prerogative. Se dal punto di vista dei cittadini provenienti dall’Unione
Europea l’ingresso nel nostro Paese deve considerarsi naturalmente
circoscritto all’interno di uno “spazio comune” del quale
la libera circolazione [di merci, persone e servizi], regolata dagli accordi
di Schengen, è garantito fondamento, la posizione di uno “straniero”
differisce notevolmente.
Fatta eccezione per alcune provenienze, per le quali accordi specifici
evitano l’obbligo di formalità per fini turistici, in generale per i periodi
di soggiorno brevi [meno di 90 giorni], l’ingresso nel nostro Paese
potrà essere autorizzato con “visto”[rilasciato da ambasciate e
consolati italiani presenti sul territorio da apporre su passaporto o
altro documento di viaggio]; per soggiorni più lunghi sarà necessario,
invece, il “permesso di soggiorno” e la dichiarazione alle autorità
entro otto giorni dall’ingresso:documentazione la cui mancanza potrebbe
causare l’espulsione dal territorio, a meno che non sia giustificata
da cause di forza maggiore.
In linea generale, le motivazioni dei richiedenti riguardano: visite, affari,
turismo, studio, ricongiungimento familiare. Nel caso di costituzione
di un rapporto di lavoro, occorrerà munirsi di una apposito
“visto”, rilasciato a seguito di nulla osta conferito dallo “Sportello
unico” competente, che può riguardare sia rapporti di lavoro subordinato,
che autonomo e stagionale. Infine, nel caso di minori, accompagnati
o meno, questi godono sempre, anche se entrati clandestinamente
in Italia, dei diritti riconosciuti dalla “Convenzione di
New York sui diritti del fanciullo” del 1989, che richiama il “superiore
interesse del fanciullo” come cardine dell’azione politica, e che in
Italia vede impegnate alcune istituzioni a livello ministeriale.
Accanto alla fisiologia dell’immigrazione, regolata, tra gli altri, da provvedimenti
amministrativi, quali i cc.dd. “decreti flusso”, vi è la patologia dell’immigrazione irregolare e clandestina. Di stranieri, cioè, già
in possesso dei requisiti necessari per il soggiorno sul nostro Paese, che
vengono meno;di stranieri privi sin dall’origine di autorizzazione.
In entrambi i casi i provvedimenti adottati dalle autorità sono il respingimento
alla frontiera o l’espulsione, a spese del Ministero degli
Interni, salvo i casi in cui, per motivi specifici [tra gli altri: necessità
di identificazione del soggetto, preparazione dei documenti di
viaggio, prestazione di soccorso] non sia possibile provvedere immediatamente.
Questa regola non vale per coloro che invochino il
“diritto di asilo”, per ragioni politiche o umanitarie che, tuttavia non
garantisce la automatica permanenza nel nostro Paese, essendo
questa rimessa ad apposite commissioni.
La legge 30 luglio 2002, n.18 [più nota come legge Bossi-Fini] ha sostituito
ed integrato la legge 6 marzo 1998, n.40 [più nota come legge
Turco- Napolitano] introducendo alcune rilevanti novità, che, in
estrema sintesi, riguardano le modifiche e regolamentazioni sui metodi
di espulsione e respingimento, [oggetto di polemiche quando
effettuate in acque internazionali]; l’allungamento dei tempi di possibile
detenzione nei CPT [centri di permanenza temporanea, già
istituiti come centri di detenzione amministrativa]; l’ingresso a fini
lavorativi; il ricongiungimento familiare.
Uno dei criteri più rappresentativi di questo testo è il costante riferimento
al rapporto tra capacità reddituale dello straniero e conseguimento
delle formalità legali per accedere ad alcuni istituti relativi
alla permanenza ed attività nel nostro Paese [come,ad esempio,
la “carta di soggiorno”, le condizioni per il ricongiungimento familiare,
il lavoro autonomo]. Criterio selettivo probabilmente volto a
rendere prioritarie le considerazioni di benessere nazionale e, forse,
un po’ miope sul fronte integrativo del fenomeno, su cui continuano
a pesare, tra l’altro, le difficoltà di un apparato burocratico
tutt’altro che efficiente.
Quanto, infine, alla assistenza sanitaria, la recente istituzione del reato
di immigrazione clandestina [nel c.d.”pacchetto sicurezza”] ha
sollevato grandi preoccupazioni sull’obbligo di denuncia da parte
del sanitario, a cui è tenuto quale”pubblico ufficiale”; pervenendosi
alla conclusione della prevalenza, invece, del divieto di segnalazione
di cui all’art.35, comma 5, D.Lvo 286/98.
|