Villa Rosa: RSA
Per tutti quelli che vivono qui è necessario trovare un’immagine diversa
da quella di oggi, per non dimenticare che hanno vissuto prima, anche
se le rughe del volto hanno coperto le tracce del passato e ci mostrano
dei vecchi che sembrano nati così, prima di morire.
Per la mamma, senza che io l’abbia scelta, l’immagine somiglia
a quella di oggi, una donna e una bambina che giocano alle bambole
di Alessandra Mattioli
Nel chiostro filtra il sole a tratti; gatti
panciuti inseguono i raggi ancora tiepidi
e si fermano dove la luce rende
l’erba più chiara e meno fredda. Qualche piccione assaggia
le margherite per poi tornare a cercare briciole
tra l’erba. Da alcuni giorni, sulla panchina all’ombra,
siede un vecchio signore col viso rivolto verso l’alto.
Mi fermo un attimo prima di salire al primo piano,
RSA, residenza sanitaria assistita per anziani.
Il reparto è nuovo, ordinato, decoroso. Le stanze sono
poche, due o tre letti per ognuna, armadi ampi, biancheria
candida. Il corridoio è dipinto di giallo e ci
sono piante verdi poggiate alle pareti. Ogni tanto un
infermiere si reca nelle stanze e la sua figura bianca lo
traversa rompendo, con lo strusciare degli zoccoli, il
silenzio.
Mia madre è nell’ultima stanza a sinistra. Mi fermo
più volte prima di raggiungerla, perché ci sono occhi
che scrutano chi viene da fuori, orecchie attente ad
ogni passo e cuori che aspettano,
tutti aspettano qualcuno.
Saluto a voce alta e mi rispondono
mormorii delusi. Non sono io quella che aspettano
e inoltre non posso restare a lungo. Solo qualche
minuto ogni giorno e al nome lentamente si aggiungono
frammenti di vita. Ho ascoltato storie, le ho dimenticate
perché erano inventate, ho dubitato delle parole, le
ho imparate di nuovo perché sono vere.
Marcella cammina poggiandosi al bastone e al muro.
Non vuole aiuto da nessuno perché, dice, non ne ha
bisogno. La lasciano fare. Esce dalla stanza, poi rientra
parlottando tra sé. Le chiedo che succede.
«Il letto vicino al mio è occupato da Adele -si lagnadove
dormirà mio marito quando viene?»
«Non si preoccupi, quando viene troveranno una soluzione
».
«No -risponde- lui trova il letto occupato e se ne va».
È arrabbiata, occhi azzurri agitati nel visetto pallido e il
bastone che si agita in aria a minacciare l’infermiere
che non ha lasciato libero il letto accanto al suo.
«Quando è venuto» chiedo.
«Tanti anni fa. Il letto era occupato.
Ha preso la valigia
ed è andato via».
«E tu?»
«Sono rimasta sotto le lenzuola io. Ho pianto».
«Mi dispiace» dico, mentre lei riprende a camminare,
piccola macchia rossa sul muro, coccinella persa nel
girasole.
Nel letto accanto al suo Adele sta seduta, intenta in un
lavoro a maglia. La prima volta che la vidi nel suo
vestito a fiori che non avrebbe mai cambiato, era
intenta nello stesso lavoro e sorrideva sulla lunga
sciarpa poggiata sulle ginocchia.
«È una sciarpa allegra» commentai.
«Perché ci sono tutti i colori della vita» rispose.
Dalle maniche uscivano le braccia magre, rugose e
scure come corteccia d’albero ma tuttavia vezzoso mi
era sembrato il disegno nascosto tra la pelle e le chiesi:
«Hai un tatuaggio?»
Lei depose il lavoro a maglia e mostrò l’avambraccio.
Un numero scolpito sulla pelle: 1412.
«Auschwitz, Birkenau. Ero tra i deportati per difetti
fisici. Una polio da bambina».
«Chiedo perdono» mormorai.
«Quando tutto è finito io mi sono messa a correre
con un’allegria che cresceva, più correvo e più ero
felice. Ecco, non mi è mai passata. Dicono che sono
malata di allegria».
Ora la saluto chiamandola ad alta voce, lei risponde
agitando la mano e la sciarpa ormai lunghissima si
muove sul pavimento e nell’aria.
La mamma mi sorride come sempre, un sorriso triste,
talvolta ironico. È tutto qui. Oltre quel sorriso non ci
sono parole. Mi stringe le mani. Ha un pensiero enorme
che le basta. Forse vede l’oceano che non ha mai traversato
o la campagna che ha circondato la sua casa,
le cento colline che lei ha contato da bambina. Sorride
sui suoi segreti, io credo. L’ironia non la capisco. È per
la mia vita scombinata forse, o per il suo presente
dove la tratteniamo a forza, o per tutti quelli che vede
intorno e per i quali non prova nessun interesse.
«Andiamo a trovare qualcuno?» propongo.
Fingo di aver sentito una risposta e spingo la sua carrozzina
nel corridoio.
Entriamo nella stanza degli uomini, gli unici tre del
reparto, Mario, Leonardo e Bruno.
«Ciao Mario, siamo venute a trovarti, come stai?»
«Bene, sono pronto, sto per uscire. Anzi sono in ritardo.
Non sanno come fare alla fattoria. Anche i miei cavalli
mi aspettano. Sono venti, i più belli della maremma.
Sto aspettando i miei parenti».
«Avranno trovato traffico -rispondo- oppure verranno
domani».
«No, stanno arrivando, ciao a tutti».
Se ne va lungo il corridoio, scalzo, perche hanno nascosto
le sue scarpe nel tentativo di dissuaderlo dall’uscire.
Torna subito dopo, accompagnato dall’infermiere
che grida:
«T’ho detto che non viene nessuno. Devi stare, qui hai
capito?»
«Mario -tento di calmare la sua delusione- forse non è
ancora guarito. Fra qualche giorno magari».
Leonardo lo guarda, poi si spinge vicino a lui e gli
suggerisce:
«Chiama a casa, ti presto il mio telefono». È una ciabatta
marrone consumata. Mario la porta all’orecchio, poi
la scaglia contro il muro.
Bruno sta rannicchiato sulla sedia con le gambe magre
appoggiate al petto e per esprimersi agita le mani
lunghissime. Ha vissuto la sua vita rattrappito nei
cartoni e non sa più distendersi. Viene chiamato
uomo ragno e lui, consapevole del nomignolo, se ne
compiace e si esibisce proprio come nell’atto di tessere
una grande tela.
La mamma mi fa segno di voler uscire.
«Ci vediamo per cena, a più tardi» saluto, uscendo
dalla stanza.
La cena è servita nella sala comune. Dalle grandi
vetrate si vede il chiostro, il giardino, aiuole curate,
alberi secolari. Nessuno degli ospiti può vedere fuori
tranne Marcella e Mario ai quali è proibito avvicinarsi
alle finestre, gli altri sono costretti sulle carrozzine. Gli
sguardi di tutti sono però rivolti alla finestra. Mia
madre chiede con gli occhi di affacciarsi. Io la sollevo
e la tengo in piedi per qualche minuto. Mi sorride
grata, senza ironia.
I pasti sono sui vassoi di plastica, nelle ciotole ermeticamente
chiuse. Le apriamo tutte con l’aiuto degli infermieri,
pigiando con il coltello di plastica le ciotole
di plastica e si sprigiona nella saletta un odore di minestra
e di plastica. Gli ospiti ora sono vestiti tutti
nella stessa maniera: un lenzuolo bianco poggiato sul
petto e legato dietro il collo. Un grande tovagliolo che
raccoglie il cibo che cade dal cucchiaio prima di entrare
tra le la labbra.
«È buono?» chiedo a mia madre.
Sorride ironica.
La sua vicina di tavolo è anche la sua compagna di
stanza, Lucia. Ha un grande appetito e finisce la sua
cena prima degli altri. Poi piange.
«Lucia che c’è da piangere adesso?» chiedo.
«Ho dolore» si lagna. «Voglio tornare a letto. Adesso
mi sgridano, sono cattivi».
Torniamo nella stanza e Lucia continua a piangere, gli
infermieri la rimproverano, scherzano, poi la rimproverano
seriamente.
«Signorina mi può aiutare» mi chiede?
Mi avvicino e sistemo il cuscino più volte fino a
quando non la vedo tranquilla. Lei è un’alternarsi di
pianto e riso, finché non trova una sorta di pace con
il rosario tra le mani e una foto che vuole accanto, il
più vicino possibile.
«È Antonietta Meo» mi spiegò, al suo arrivo. «La mia
amichetta Nennolina. Eravamo compagne di scuola.
Ora è Venerabile, ma diventerà Santa quest’anno».
Guardai la foto della bambina.
«È bellissima» osservai.
«Da bambina mi insegnava le preghiere per dire a
Gesù: ti voglio bene. Le avevano amputato una gamba
ma giocavamo insieme. A lei piaceva il gioco della
corda; la teneva perché le sue compagne potessero
saltare. Poi è morta, non ha vissuto la guerra, ma se
non fosse stata con me io non ce l’avrei fatta. Cadevano
le bombe, c’erano cumuli di macerie e io non avevo il
coraggio di muovermi finché lei non veniva ad aiutarmi.
«Salta -la sentivo dire- devi saltare come sulla corda».
Contai gli anni, dalla guerra ad oggi. Una vita intera di
cui resta solo il nome di una compagna di scuola, un
gioco e salti tra le macerie. Lucia non racconta altro.
Mi sono abituata a pensarla piccola, con le trecce,
camminare tra le rovine di San Lorenzo.
Per tutti quelli che vivono qui è necessario trovare
un’immagine diversa da quella di oggi, per non dimenticare
che hanno vissuto prima, anche se le rughe
del volto hanno coperto le tracce del passato e ci
mostrano dei vecchi che sembrano nati così, prima
di morire.
Per la mamma, senza che io l’abbia scelta, l’immagine
somiglia a quella di oggi, una donna e una bambina
che giocano alle bambole. Dovrebbero costruirle così
le bambole: con le rughe, le protesi dei denti, capelli
ispidi e bianchi per abituare le bambine al gioco che
faranno tanti anni dopo.
Il corpo della mamma è pesante, si fa sempre più pesante
anche se è più magra. Si abbandona tra le mie
braccia come un sacchetto. Le bacio la fronte e canto
a bassa voce una ninna nanna, l’ho ascoltata da
bambina per anni. Era la mia ninna nanna che ora le
restituisco.
Anche la bambina con le trecce si è addormentata e
nella stanza più avanti sonnecchia un bambino vestito
da uomo ragno accanto a un giovane signore che si
chiama Mario, il cavaliere più veloce della Maremma.
Leonardo è intento a leggere, da intellettuale qual è,
mentre nella stanza delle donne si tende un arcobaleno
di lana.
Li saluto sottovoce per l’ultima volta perché da domani
si torna a casa. Il medico ha detto che la mamma non
può guarire in nessun posto; neanche migliorare ha
precisato. Alle mie domande ha allargato le braccia in
un gesto di impotenza.
Quando vado via nella RSA è già notte, le luci sono
state abbassate tranne che nella stanza degli infermieri
dove una televisione è accesa e loro sono seduti a
guardarla.
Traverso il chiostro senza fretta guardando i gatti che
mangiano i resti della cena servita agli anziani, e
ancora il vecchio signore seduto sulla panchina. Ha
accennato un saluto di risposta al mio, ma non mi avvicino
a lui per chiedere cosa fa. Credo che sia il marito
di Marcella, che l’abbia perdonata, che domani o dopodomani
salirà a prenderla per portarla in una casa
dove dormire insieme.
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