MTM n°26
MEDICAL TEAM MAGAZINE
Anno 9 - Numero 2 - set/nov 2010
Sociale
 





Anno 9 - Numero 2
set/nov 2010



Alessandra Mattioli
Alessandra.mattioli@uniroma1.it

 


Villa Rosa: RSA
Per tutti quelli che vivono qui è necessario trovare un’immagine diversa da quella di oggi, per non dimenticare che hanno vissuto prima, anche se le rughe del volto hanno coperto le tracce del passato e ci mostrano dei vecchi che sembrano nati così, prima di morire. Per la mamma, senza che io l’abbia scelta, l’immagine somiglia a quella di oggi, una donna e una bambina che giocano alle bambole

di Alessandra Mattioli


Dalle maniche uscivano le braccia magre, rugose e scure come corteccia d’albero ma tuttavia vezzoso mi era sembrato il disegno nascosto tra la pelle Nel chiostro filtra il sole a tratti; gatti panciuti inseguono i raggi ancora tiepidi e si fermano dove la luce rende l’erba più chiara e meno fredda. Qualche piccione assaggia le margherite per poi tornare a cercare briciole tra l’erba. Da alcuni giorni, sulla panchina all’ombra, siede un vecchio signore col viso rivolto verso l’alto.
Mi fermo un attimo prima di salire al primo piano, RSA, residenza sanitaria assistita per anziani.
Il reparto è nuovo, ordinato, decoroso. Le stanze sono poche, due o tre letti per ognuna, armadi ampi, biancheria candida. Il corridoio è dipinto di giallo e ci sono piante verdi poggiate alle pareti. Ogni tanto un infermiere si reca nelle stanze e la sua figura bianca lo traversa rompendo, con lo strusciare degli zoccoli, il silenzio.
Mia madre è nell’ultima stanza a sinistra. Mi fermo più volte prima di raggiungerla, perché ci sono occhi che scrutano chi viene da fuori, orecchie attente ad ogni passo e cuori che aspettano, tutti aspettano qualcuno.
Saluto a voce alta e mi rispondono mormorii delusi. Non sono io quella che aspettano e inoltre non posso restare a lungo. Solo qualche minuto ogni giorno e al nome lentamente si aggiungono frammenti di vita. Ho ascoltato storie, le ho dimenticate perché erano inventate, ho dubitato delle parole, le ho imparate di nuovo perché sono vere.
Marcella cammina poggiandosi al bastone e al muro.
Non vuole aiuto da nessuno perché, dice, non ne ha bisogno. La lasciano fare. Esce dalla stanza, poi rientra parlottando tra sé. Le chiedo che succede.
«Il letto vicino al mio è occupato da Adele -si lagnadove dormirà mio marito quando viene?»
«Non si preoccupi, quando viene troveranno una soluzione ».
Ha un pensiero enorme che le basta. Forse vede l’oceano che non ha mai traversato o la campagna che ha circondato la sua casa, le cento colline che lei ha contato da bambina«No -risponde- lui trova il letto occupato e se ne va».
È arrabbiata, occhi azzurri agitati nel visetto pallido e il bastone che si agita in aria a minacciare l’infermiere che non ha lasciato libero il letto accanto al suo.
«Quando è venuto» chiedo.
«Tanti anni fa. Il letto era occupato.
Ha preso la valigia ed è andato via».
«E tu?»
«Sono rimasta sotto le lenzuola io. Ho pianto».
«Mi dispiace» dico, mentre lei riprende a camminare, piccola macchia rossa sul muro, coccinella persa nel girasole.
Nel letto accanto al suo Adele sta seduta, intenta in un lavoro a maglia. La prima volta che la vidi nel suo vestito a fiori che non avrebbe mai cambiato, era intenta nello stesso lavoro e sorrideva sulla lunga sciarpa poggiata sulle ginocchia.
«È una sciarpa allegra» commentai.
«Perché ci sono tutti i colori della vita» rispose.
Dalle maniche uscivano le braccia magre, rugose e scure come corteccia d’albero ma tuttavia vezzoso mi era sembrato il disegno nascosto tra la pelle e le chiesi: «Hai un tatuaggio?»
Lei depose il lavoro a maglia e mostrò l’avambraccio. Un numero scolpito sulla pelle: 1412.
«Auschwitz, Birkenau. Ero tra i deportati per difetti fisici. Una polio da bambina».
«Chiedo perdono» mormorai.
«Quando tutto è finito io mi sono messa a correre con un’allegria che cresceva, più correvo e più ero felice. Ecco, non mi è mai passata. Dicono che sono malata di allegria».
Ora la saluto chiamandola ad alta voce, lei risponde agitando la mano e la sciarpa ormai lunghissima si muove sul pavimento e nell’aria.
La mamma mi sorride come sempre, un sorriso triste, talvolta ironico. È tutto qui. Oltre quel sorriso non ci sono parole. Mi stringe le mani. Ha un pensiero enorme che le basta. Forse vede l’oceano che non ha mai traversato o la campagna che ha circondato la sua casa, le cento colline che lei ha contato da bambina. Sorride sui suoi segreti, io credo. L’ironia non la capisco. È per la mia vita scombinata forse, o per il suo presente dove la tratteniamo a forza, o per tutti quelli che vede intorno e per i quali non prova nessun interesse.
«Andiamo a trovare qualcuno?» propongo.
Fingo di aver sentito una risposta e spingo la sua carrozzina nel corridoio.
Entriamo nella stanza degli uomini, gli unici tre del reparto, Mario, Leonardo e Bruno.
«Ciao Mario, siamo venute a trovarti, come stai?»
«Bene, sono pronto, sto per uscire. Anzi sono in ritardo.
Non sanno come fare alla fattoria. Anche i miei cavalli mi aspettano. Sono venti, i più belli della maremma. Sto aspettando i miei parenti».
«Avranno trovato traffico -rispondo- oppure verranno domani».
«No, stanno arrivando, ciao a tutti».
Se ne va lungo il corridoio, scalzo, perche hanno nascosto le sue scarpe nel tentativo di dissuaderlo dall’uscire. Torna subito dopo, accompagnato dall’infermiere che grida:
«T’ho detto che non viene nessuno. Devi stare, qui hai capito?»
«Mario -tento di calmare la sua delusione- forse non è ancora guarito. Fra qualche giorno magari».
Leonardo lo guarda, poi si spinge vicino a lui e gli suggerisce:
«Chiama a casa, ti presto il mio telefono». È una ciabatta marrone consumata. Mario la porta all’orecchio, poi la scaglia contro il muro.
Bruno sta rannicchiato sulla sedia con le gambe magre appoggiate al petto e per esprimersi agita le mani lunghissime. Ha vissuto la sua vita rattrappito nei cartoni e non sa più distendersi. Viene chiamato uomo ragno e lui, consapevole del nomignolo, se ne compiace e si esibisce proprio come nell’atto di tessere una grande tela.
La mamma mi fa segno di voler uscire.
«Ci vediamo per cena, a più tardi» saluto, uscendo dalla stanza.
La cena è servita nella sala comune. Dalle grandi vetrate si vede il chiostro, il giardino, aiuole curate, alberi secolari. Nessuno degli ospiti può vedere fuori tranne Marcella e Mario ai quali è proibito avvicinarsi alle finestre, gli altri sono costretti sulle carrozzine. Gli sguardi di tutti sono però rivolti alla finestra. Mia madre chiede con gli occhi di affacciarsi. Io la sollevo e la tengo in piedi per qualche minuto. Mi sorride grata, senza ironia.
I pasti sono sui vassoi di plastica, nelle ciotole ermeticamente chiuse. Le apriamo tutte con l’aiuto degli infermieri, pigiando con il coltello di plastica le ciotole di plastica e si sprigiona nella saletta un odore di minestra e di plastica. Gli ospiti ora sono vestiti tutti nella stessa maniera: un lenzuolo bianco poggiato sul petto e legato dietro il collo. Un grande tovagliolo che raccoglie il cibo che cade dal cucchiaio prima di entrare tra le la labbra.
«È buono?» chiedo a mia madre.
Sorride ironica.
La sua vicina di tavolo è anche la sua compagna di stanza, Lucia. Ha un grande appetito e finisce la sua cena prima degli altri. Poi piange.
«Lucia che c’è da piangere adesso?» chiedo.
«Ho dolore» si lagna. «Voglio tornare a letto. Adesso mi sgridano, sono cattivi».
Torniamo nella stanza e Lucia continua a piangere, gli infermieri la rimproverano, scherzano, poi la rimproverano seriamente.
«Signorina mi può aiutare» mi chiede?
Mi avvicino e sistemo il cuscino più volte fino a quando non la vedo tranquilla. Lei è un’alternarsi di pianto e riso, finché non trova una sorta di pace con il rosario tra le mani e una foto che vuole accanto, il più vicino possibile.
«È Antonietta Meo» mi spiegò, al suo arrivo. «La mia amichetta Nennolina. Eravamo compagne di scuola.
Ora è Venerabile, ma diventerà Santa quest’anno».
Guardai la foto della bambina.
«È bellissima» osservai.
Adele sta seduta, intenta in un lavoro a maglia«Da bambina mi insegnava le preghiere per dire a Gesù: ti voglio bene. Le avevano amputato una gamba ma giocavamo insieme. A lei piaceva il gioco della corda; la teneva perché le sue compagne potessero saltare. Poi è morta, non ha vissuto la guerra, ma se non fosse stata con me io non ce l’avrei fatta. Cadevano le bombe, c’erano cumuli di macerie e io non avevo il coraggio di muovermi finché lei non veniva ad aiutarmi.
«Salta -la sentivo dire- devi saltare come sulla corda».
Contai gli anni, dalla guerra ad oggi. Una vita intera di cui resta solo il nome di una compagna di scuola, un gioco e salti tra le macerie. Lucia non racconta altro.
Mi sono abituata a pensarla piccola, con le trecce, camminare tra le rovine di San Lorenzo.
Per tutti quelli che vivono qui è necessario trovare un’immagine diversa da quella di oggi, per non dimenticare che hanno vissuto prima, anche se le rughe del volto hanno coperto le tracce del passato e ci mostrano dei vecchi che sembrano nati così, prima di morire.
Per la mamma, senza che io l’abbia scelta, l’immagine somiglia a quella di oggi, una donna e una bambina che giocano alle bambole. Dovrebbero costruirle così le bambole: con le rughe, le protesi dei denti, capelli ispidi e bianchi per abituare le bambine al gioco che faranno tanti anni dopo.
Il corpo della mamma è pesante, si fa sempre più pesante anche se è più magra. Si abbandona tra le mie braccia come un sacchetto. Le bacio la fronte e canto a bassa voce una ninna nanna, l’ho ascoltata da bambina per anni. Era la mia ninna nanna che ora le restituisco.
Anche la bambina con le trecce si è addormentata e nella stanza più avanti sonnecchia un bambino vestito da uomo ragno accanto a un giovane signore che si chiama Mario, il cavaliere più veloce della Maremma.
Leonardo è intento a leggere, da intellettuale qual è, mentre nella stanza delle donne si tende un arcobaleno di lana.
Li saluto sottovoce per l’ultima volta perché da domani si torna a casa. Il medico ha detto che la mamma non può guarire in nessun posto; neanche migliorare ha precisato. Alle mie domande ha allargato le braccia in un gesto di impotenza.
Quando vado via nella RSA è già notte, le luci sono state abbassate tranne che nella stanza degli infermieri dove una televisione è accesa e loro sono seduti a guardarla.
Traverso il chiostro senza fretta guardando i gatti che mangiano i resti della cena servita agli anziani, e ancora il vecchio signore seduto sulla panchina. Ha accennato un saluto di risposta al mio, ma non mi avvicino a lui per chiedere cosa fa. Credo che sia il marito di Marcella, che l’abbia perdonata, che domani o dopodomani salirà a prenderla per portarla in una casa dove dormire insieme.