C’È UNA RIFORMA TRIBUTARIA
NEL NOSTRO FUTURO PROSSIMO?
di Antonio Di Majo
Nelle scorse settimane il governo ha annunciato
l’avvio di un “cantiere” per le
riforma tributaria: non se ne conoscono
ancora nemmeno i principi di fondo, ma si può provare
ad avanzare qualche considerazione sulla sua praticabilità
complessiva e sulla perseguibilità di alcuni obiettivi di
massima largamente auspicati in tempi recenti e non
solo dagli ambienti vicini al governo.
Un giudizio sulla portata di una riforma che, anche se
in maniera non esplicita, sembra promettere riduzioni
diffuse del carico tributario non può prescindere dalle
dimensioni dei bilanci pubblici. Nell’ultimo secolo le
spese pubbliche sono passate, nella generalità dei paesi
più sviluppati, dal 5-10 al 45-
50 % del PIL e i tentativi di ridurne
il “peso” in misura sostanziale
non sembrano poter
riuscire, almeno in un futuro
prossimo, anche a prescindere
dalle conseguenze della crisi che
stiamo vivendo. Anzi la dichiarata
esigenza, in alcuni paesi (tra cui
il nostro), di attenuare le possibili
conseguenze di un elevato debito
pubblico può incentivare ulteriori aumenti della pressione
tributaria. Di conseguenza in un paese che presenta
diversi dualismi, tra cui quello tra “evasori e tartassati”
(diventato rilevante dopo che la riforma degli anni settanta
ha segnato il passaggio a un sistema tributario
“di massa”) un cambiamento significativo può derivare
da una gigantesca ridistribuzione del carico tra tali
gruppi sociali, e solo in parte è possibile (ma con grande
difficoltà) prevedere attenuazioni della pressione fiscale
finanziati da guadagni di efficienza nella spesa. In ogni
caso si tratta di processi (se mai saranno avviati con
convinzione collettiva) di lunga durata; nel più breve
periodo sono possibili, a mio parere, solo aggiustamenti
di limitata entità. Questo vale
per alcuni degli “slogan” fiscali
più diffusi negli ultimi tempi,
quello di uno spostamento del
prelievo dai fattori produttivi (lavoro
e capitale) ai consumi, in
modo da ovviare ai problemi di
crescita e di equità di cui soffre
il nostro paese e quello di un
trattamento tributario privilegiato
per la famiglia.
Effettivamente negli ultimi due decenni, di pari passo
con l’eccezionale sviluppo delle relazioni economiche
internazionali e con il connesso ampliamento di arbitraggi
transfrontalieri nella ricerca delle convenienze, il carico
tributario si è spostato significativamente sui cespiti,
poco “mobili”, che non si possono sottrarre alla sovranità
fiscale degli stati nazionali, cioè i fabbricati, il lavoro e
le imprese fortemente localizzate (in genere di dimensione
minore). L’ideale novecentesco dell’imposta generale
progressiva su tutti i redditi si è allontanato
sempre di più, dando spazio a prelievi “cedolari” e sulle
transazioni (non solo quelle concernenti i consumi),
mantenendo la progressività (particolarmente forte nel
nostro paese) sui redditi individuali che non possono
sfuggire al prelievo. Per l’Italia questo quadro è aggravato
dalle iniquità consentite da un’entità dell’evasione
unica tra i paesi sviluppati. Il passaggio alle imposte
speciali sui consumi è limitato dalle norme europee,
così come la manovra sull’IVA, peraltro largamente
evasa e quindi, allo stato, inadatta a consentire lo stesso
gettito di imposte più sicure. Normalmente le imposte
sulle vendite si traslano più facilmente sui prezzi pagati
dai consumatori, ma questo sarebbe un prezzo da
pagare in termini di inflazione “una tantum”, mentre
la progressività (specie nel nostro paese) è talmente limitata
a pochi tipi di redditi che la sua difesa effettiva
(e non solo dichiarata in difesa di una “bandiera”) ha
ormai pochi difensori (meno di tutti i lavoratori del
ceto medio, che la avvertono come una pesante discriminazione
contro di loro). Quanto alla tutela della famiglia,
si parla spesso dell’introduzione del “quoziente
familiare”, che ha un rilievo, anche quantitativo, molto
importante in Francia. Un “quoziente familiare” di tale
portata sarà per molto tempo impossibile in Italia, per
le ricordate ragioni di gettito. In misura limitata sarebbe
però possibile e auspicabile, per sgravare i contribuenti
onesti con redditi familiari fortemente squilibrati, principalmente
le famiglie con un solo stipendio. Ma sarebbe
poco realistico e opportuno finanziare questa riforma
con l’aggravio delle imposte sui redditi dei contribuenti
con reddito medio alto dichiarato (le cui aliquote marginali
superano ormai largamente, tenuto conto dei
contributi sociali e delle sovrimposte locali, il 50 %
degli stipendi, un record mondiale), e il cui impatto sul
gettito è tanto più modesto man mano che si innalza la
soglia compensativa al di sopra di poche decine di migliaia
di euro annui. Né il ricorso
all’imposizione patrimoniale può
aiutare se ci si limita alla ricchezza
immobiliare, perché graverebbe anch’essa,
se non si limitassero fortemente
l’evasione e l’elusione, sullo
stesso ceto medio non evasore (gli
impiegati e i dirigenti).
Quanto alla tassazione delle imprese,
potrebbero essere attenuate alcune
distorsioni che possono sfavorire
un’attività di investimento già fortemente scoraggiata
dalle attese di scarsa crescita della domanda, ossia dei
fatturati attesi. Investimenti innovativi, ad alto rischio,
potrebbero essere incentivati da una adeguata politica
industriale, possibile però solo in un concerto europeo.
La politica tributaria nazionale ha spazio limitato; può
modificare il “disegno” del prelievo in favore di una
struttura di finanziamento maggiormente orientata ai
mezzi propri che, come dimostrano numerose ricerche,
incentiva l’accumulazione più del debito. Qualche passo
in questa direzione è stato compiuto in anni recenti e
qualche altro passo andrebbe compiuto, non necessariamente
costoso per le casse dello Stato. Altre modifiche
non costose potrebbero rendere la forma organizzativa
dell’attività di impresa tendenzialmente fiscalmente
neutrale rispetto alle esigenze dell’accumulazione, eliminando
qualche possibile ostacolo all’espansione delle
imprese minori. Tuttavia l’esistenza nel nostro paese di
oltre tre milioni di imprese (esercitate in forma individuale
o di società di persone) di dimensioni minori rende
inevitabile il ricorso a forme forfettarie di definizione
degli imponibili, che rendono naturalmente meno efficace
l’utilizzo di incentivi selettivi all’accumulazione
per la correlata insensibilità del gettito. Il problema in
questo caso è quello di una opportuna definizione delle
forme forfettarie di tassazione, che possano incorporare
qualche incentivo strutturale alla crescita.
Non molto rilevanti sembrano le
implicazioni sul sistema tributario
dell’attuazione del federalismo fiscale,
almeno nell’attuale fase di un
lungo processo.
Nel complesso i propositi di riforma
tributaria manifestati dal Ministro
dell’economia sembrano rispondere
più ad un’esigenza di propaganda
che a un desiderio di affrontare nodi
strutturali di lunga durata.
|